La nuova riforma del reclutamento e formazione della scuola è un italian squid game in cui i docenti, l’uno contro l’altro armati, si contendono briciole premiali, a danno della qualità della loro vita e quindi della didattica. Saltando a piè pari la contrattazione sugli aumenti stipendiali ancora in essere fra governo e sindacati, il decreto Bianchi-Draghi stabilisce un investimento alternativo di risorse, che andranno a meno della metà dei facenti domanda (40%) e agli emolumenti più o meno dorati di tutti coloro (esperti, docenti universitari, amministrativi e dirigenti) che animeranno la nuova scuola di Alta formazione, in cui siederanno i presidenti di INVALSI e INDIRE: questo sì un incontrollato carrozzone! Bianchi e Draghi non sono impazziti, perseguono le più radicali analisi neo-liberiste e teorie aziendaliste che finiscono per diventare l’alibi ideologico per non investire sulla scuola e sull’intero corpo docente. (Leggi)

Le decisioni del governo Draghi in materia di reclutamento e formazione insegnanti diventano decreto legge, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 1 Maggio 2022. Tra le “ulteriori misure urgenti per l’attuazione del PNRR” troviamo quanto già previsto dal consiglio dei ministri a fine aprile: nuovo percorso per diventare docenti, formazione “a premi” fuori dall’orario di servizio: obbligatoria per i neo-immessi, volontaria per gli altri – retribuita solo al 40% dei partecipanti, i più “adeguati”. Largo alle competizioni. Ancora: Scuola di Alta Formazione, con Presidenti INVALSI e INDIRE, sistema di valutazione e controllo-qualità permanente (in capo al dirigente e ad un comitato di valutazione), sulla base di indicatori di performance (aziendali, pardon) centrali. A quest’impianto, il decreto appena pubblicato aggiunge un nuovo dettaglio: la formazione meritocratica sarà finanziata con i tagli di organico (circa 10.000 unità fino al 2031). Neanche la Fondazione Agnelli si era spinta così avanti, suggerendo di usare le risorse risparmiate a causa del calo demografico per migliorare la qualità dell’offerta formativa con un maggior numero di insegnanti per alunno/classe. Quello di Draghi, invece, è un vero e proprio furto con destrezza, ai danni proprio di quella categoria e di quell’istituzione che in piena crisi pandemica dichiarava di voler sostenere. (Leggi)

Un nuovo regolamento del Vaticano diretto alle scuole cattoliche raccomanda comportamenti discriminatori che in Italia violano la Costituzione. Il Vaticano infatti ha emanato una nuova direttiva per le scuole cattoliche che prevede il licenziamento per i docenti e il personale degli istituti che non vivono secondo i dettami della Chiesa cattolica (ne ha scritto sul Corriere Orsola Riva). Significa che, secondo le linee di condotta emanate dalla Chiesa, se una docente di una scuola paritaria rimane incinta fuori dal matrimonio «dovrebbe» essere sanzionata con la perdita del lavoro. Lo stesso «dovrebbe» succedere in base al nuovo regolamento ai docenti che divorziano, che convivono fuori dal matrimonio, a quelli hanno relazioni con persone dello stesso sesso e che stringono un’unione civile. Oppure in caso di interruzioni volontarie di gravidanza. L’istruzione della Congregazione per l’Educazione cattolica intitolata «L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo» (qui il testo su Vatican.va) prevede testualmente che se i dipendenti delle scuole cattoliche non si adeguano ai «valori e comportamenti» del cattolicesimo, «essi possono essere sanzionati come espressione di una mancanza di onestà professionale», fino al «licenziamento» come «ultima opzione, che va legittimamente presa dopo il fallimento di tutti gli altri tentativi di risoluzione».

In Italia però queste «sanzioni» sono vietate dalla Costituzione perché rappresentano una discriminazione sulla base delle caratteristiche personali. Lo ha ribadito una recente sentenza della Cassazione, che nel novembre 2021 ha condannato una scuola paritaria di Trento che non aveva rinnovato il contratto a una professoressa in base al «sospetto» che fosse lesbica. All’epoca la madre superiora che dirigeva la scuola aveva detto alla 27esima Ora del Corriere di aver scelto di bloccare il contratto per «tutelare l’ambiente scolastico». «Il problema esiste; la scuola cattolica ha una sua caratteristica e un insieme di aspetti educativi e orientativi: a noi sembra di doverli difendere a tutti i costi», aveva aggiunto, secondo un principio ribadito ora dalla Congregazione per l’Educazione cattolica, l’ente vaticano che indirizza e regola le scuole e università cattoliche. I giudici della Cassazione avevano invece ribadito che, se pure ci sono «disposizioni, anche costituzionali, a fondamento della libertà di organizzazione dell’Istituto religioso», esse non permettono di «legittimare condotte apertamente discriminatorie». Analogamente la Corte Suprema americana nel 2020 ha sancito il divieto di licenziare qualcuno per il suo orientamento sessuale o la sua identità di genere.

La nuova istruzione della Congregazione per l’Educazione cattolica arriva dopo queste due sentenze e dopo che il coming out di massa dei dipendenti della Chiesa cattolica tedesca, docenti e personale della scuola compresi, ha risollevato il problema. In Germania la legge, a differenza di quanto succede in Italia, in Francia o negli Stati Uniti, dà a tutte le Chiese l’autonomia di stabilire le loro regole interne. Tra queste c’è la clausola di lealtà della Chiesa cattolica che obbliga i suoi dipendenti a vivere e comportarsi secondo la sua dottrina. Quando però a gennaio centinaia di lavoratori delle scuole e delle organizzazioni cattoliche tedesche hanno fatto coming out, la Conferenza episcopale tedesca ha fatto sapere che per loro non ci sarebbero state conseguenze. Il documento della Congregazione per l’Educazione cattolica è anche un richiamo alla Chiesa tedesca, considerata troppo aperta e liberale da una parte del mondo cattolico. La nuova istruzione però non riguarda solo le persone lgbt+, ma anche ad esempio le madri o i padri single, i separati o i divorziati.

La Congregazione per l’Educazione cattolica fa esplicitamente riferimento agli Stati che, come l’Italia e l’intera Unione europea, vietano la discriminazione sul lavoro sulla base di determinate caratteristiche personali. «Le scuole cattoliche devono essere munite di una dichiarazione della propria missione oppure di un codice di comportamento. Questi sono strumenti per la garanzia della qualità istituzionale e professionale. Occorre quindi rafforzarli giuridicamente tramite contratti di lavoro o altre dichiarazioni contrattuali dei soggetti coinvolti con chiaro valore legale. Si prende atto che in tanti Paesi la legge civile esclude una “discriminazione” a causa della religione, dell’orientamento sessuale nonché di altri aspetti della vita privata. Nello stesso tempo, viene riconosciuta alle istituzioni educative la possibilità di munirsi di un profilo di valori e di un codice di comportamenti da rispettare. Nel momento in cui tali valori e comportamenti non siano rispettati dai soggetti interessati, essi possono essere sanzionati come espressione di una mancanza di onestà professionale nel non adempimento delle clausole definite negli appositi contratti e nelle linee-guida istituzionali» si legge nel documento.

Un passaggio in particolare sembra far riferimento alla sentenza italiana e a quella degli Stati Uniti: «I problemi giuridici e di competenza delle istituzioni educative cattoliche nascono anche a causa del doppio inquadramento normativo: canonico e statale-civile. Dalla diversità di scopi delle relative legislazioni, può accadere che lo Stato imponga alle istituzioni cattoliche, che operano nella sfera pubblica, comportamenti non consoni che mettano in dubbio la credibilità dottrinale e disciplinare della Chiesa. Qualche volta anche l’opinione pubblica rende quasi impossibili le soluzioni in linea con i principi della morale cattolica».

Il documento quindi indica strumenti alternativi per sanzionare i lavoratori che non vivono secondo i dettami della Chiesa. «Al di là delle norme esclusivamente giuridiche, si mostrano spesso efficaci altri strumenti più adatti alla promozione della responsabilità di ciascuno a favore della identità dell’istituzione — scrive la Congregazione per l’educazione cattolica —. Per esempio, le procedure di autovalutazione individuale e collettiva all’interno dell’istituzione, gli accordi orientativi sui livelli di qualità desiderati, i programmi di formazione permanente e di promozione e rafforzamento della professionalità, gli incentivi e i premi nonché la raccolta, la documentazione e lo studio di buone prassi». Ma secondo la legge italiana anche le altre forme di sanzione sono vietate. «Anche la mancate promozioni, se sono dovute a una caratteristica personale protetta dei lavoratori, sono illegittime» spiega Anna Lorenzetti, professoressa di Diritto costituzionale dell’Università di Bergamo ed esperto di diritto antidiscriminatorio. (Fonte: Corriere della Sera)

di ELENA TEBANO

Poco tempo fa avevamo commentato la relazione della Corte dei Conti relativa al controllo sulla gestione finanziaria dell’INVALSI, un documento importante, che avrebbe meritato maggiore eco e sicuramente conseguenti modifiche di indirizzo politico. La Corte metteva in evidenza numerosi problemi: conflitti di interesse delle alte cariche dell’istituto, anomalie nel reclutamento, ricorso a contratti atipici, esternalizzazioni e consulenze di esperti profumatamente pagati, costi enormi della macchina dei test, oltre 9 milioni di euro all’anno. Nel dicembre scorso la Corte dei Conti ha concluso la sua attività di controllo sulla gestione finanziaria dell’INDIRE (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa) ente che insieme all’INVALSI fa parte del nostro Sistema Nazionale di Valutazione. Anche stavolta la relazione dei giudici contabili merita una lettura, perché evidenzia aspetti molto singolari: dall’incarico di direttore generale particolarmente longevo, in violazione allo statuto, all’eccesso di spesa per indennità, trasferte e consulenze, fino alla mancanza di un “sistema volto verificare gli standards di qualità dei servizi erogati”. Dall’Ente pubblico che dovrebbe concorrere al “miglioramento della qualità” del nostro sistema scolastico, questo non ce lo saremmo mai aspettato. (leggi)

In relazione all’articolo Dopo l’INVALSI, la Corte dei Conti bacchetta anche l’INDIRE riceviamo e volentieri pubblichiamo la replica del Presidente di INDIRE, Giovanni Biondi. (leggi)

La Relazione sulla gestione finanziaria dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione: sono 122 gli incarichi solo nel 2019 per la costruzione delle prove di apprendimento di italiano, matematica ed inglese, mentre nel giro di tre anni è stato pagato più di un milione di euro a 91 esperti risultati in quiescenza. Alla guida dell'ente nominato Roberto Ricci, oggetto di valutazione da parte dei magistrati contabili per la precedente posizione ricoperto: una situazione di "conflitto di interessi strutturale"

Per il mancato svolgimento delle prove Invalsi 2020 a causa dell’emergenza Covid-19, l’Istituto ha comunque dovuto sostenere un onere finanziario di oltre 5 milioni di euro, a fronte della spesa di 7,6 miliardi, che si sarebbe sostenuta per il loro regolare svolgimento. E, nonostante l’equilibrio di bilancio, il rendiconto 2019 registra un disavanzo finanziario di competenza per 8 milioni, peggiore rispetto al dato già negativo riscontrato nell’esercizio precedente (5,5 milioni). Inoltre, all’aumento del 41% della spesa di personale nel triennio 2017-2019 non ha fatto seguito, come ci si sarebbe aspettato, una contrazione della spesa per gli “Incarichi libero professionali di studi, ricerca e consulenza” che, invece, registra una riduzione di appena il 5% rispetto al 2017. Sono 122 gli incarichi solo nel 2019 per la costruzione delle prove di apprendimento di italiano, matematica ed inglese, mentre nel giro di tre anni è stato pagato più di un milione di euro a 91 esperti risultati in quiescenza. A queste criticità si aggiungono anche situazioni di ‘conflitto di interessi‘. Tutto segnalato dalla Sezione controllo enti della Corte dei conti che, con la delibera 59/2021, ha approvato la Relazione sulla gestione finanziaria per l’esercizio 2019 dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione, sottoposto al potere di indirizzo e vigilanza del ministero dell’Istruzione. Recente la nomina a nuovo presidente di Roberto Ricci, già dirigente di ricerca e responsabile dell’area prove dell’Istituto, al posto di Renata Maria Viganò, nominata componente del consiglio d’amministrazione dell’Istituto.

QUEL ‘CONFLITTO DI INTERESSI STRUTTURALE’ – E anche il funzionamento del cda, nonché il ruolo finora ricoperto da Ricci, è stato oggetto di valutazione della Corte dei Conti. È emersa una criticità rispetto al contemporaneo svolgimento “da parte del componente interno eletto dal personale dell’Istituto, rivestente la qualifica di dirigente di ricerca – scrivono i giudici – anche del ruolo di responsabile di uno dei due settori, in cui si articola l’Istituto e da cui dipendono le relative aree di ricerca, ‘Settore della ricerca valutativa’, nonché di responsabile dell’Area 1 ‘Rilevazioni nazionali’”. La Corte dei Conti, dunque, evidenzia una situazione di ‘conflitto di interessi strutturale’, legata alla posizione ricoperta, alle funzioni attribuite e agli interessi professionali coinvolti. Il contestuale svolgimento di questi incarichi, insieme alla partecipazione alla discussione e alla votazione delle deliberazioni adottate dal cda su materie proprie del settore e dell’area di cui si ha anche la responsabilità e il coordinamento, appaiono “mettere a rischio la separazione tra funzioni di indirizzo politico–amministrativo e funzioni di gestione amministrativa, che trova il suo fondamento nell’articolo 97 della Costituzione”. Ma non è l’unica criticità evidenziata dalla Corte dei Conti.

I COSTI DELLE PROVE NELL’EMERGENZA – A causa dell’emergenza Covid, le prove Invalsi 2020 non si sono svolte e l’istituto ha avviato (dalla fine di ottobre 2020 alla fine di marzo 2021) il progetto ‘Percorsi e strumenti Invalsi’ (Formative testing), per verificare se alcuni traguardi delle Indicazioni nazionali del grado scolastico precedente (2019-2020) sono stati raggiunti, sia in termini di competenze sia, dove possibile, di contenuti attesi. In una nota del 28 aprile 2020, il Ministero dell’Istruzione ha comunicato la sospensione dello svolgimento delle prove “lungi dal voler pregiudicare in alcun modo l’attività e la corretta gestione economico finanziaria dell’Invalsi”. I giudici contabili, però, scrivono che “stante la tempistica con la quale il Ministero dell’istruzione ha comunicato in via definitiva l’impossibilità di procedere al loro svolgimento e le previsioni contrattuali relative alla fornitura dei servizi a ciò strumentali (ad esempio la messa a disposizione della piattaforma telematica)”, questo mancato svolgimento ha comunque determinato per l’Istituto un onere finanziario di oltre 5 milioni. A questi vanno aggiunti gli oneri (1,8 milioni di euro più Iva) per l’esecuzione delle prove suppletive relative al progetto Formative testing.

RENDICONTO E GESTIONE IN DISAVANZO – Il rendiconto 2019 è stato approvato dal Consiglio di amministrazione il 7 agosto 2020, sulla base del parere favorevole del Collegio dei revisori dei conti. Nonostante sia stato conseguito l’equilibrio di bilancio, sottolinea la Corte dei Conti “il rendiconto 2019 registra un disavanzo finanziario di competenza per 8,1 milioni “quale differenza tra il totale generale delle uscite impegnate (più di 31 milioni, ndr) e il totale generale delle entrate accertate (circa 23 milioni)”, in peggioramento rispetto al dato negativo già riscontrato nell’esercizio precedente (quasi 5,6 milioni). Anche la gestione 2019 si chiude con un disavanzo economico di oltre 70mila euro “continuando il trend negativo (5,4 milioni nel 2017 e 1,2 milioni nel 2018)”. “L’istituto – scrivono i giudici – ha registrato per l’esercizio 2019 una contrazione del risultato finale di amministrazione, passando da 16,6 milioni nel 2018 a 10,9 milioni nel 2019”. La Corte dei Conti definisce “consistente” il contenzioso da parte del personale ora a tempo indeterminato “per precedente reiterato ricorso allo strumento contrattuale a tempo determinato o di forme di collaborazione coordinata e continuativa da parte dell’Istituto”. Ad oggi l’Invalsi, per questo tipo di contenzioso, ha sostenuto un esborso di oltre 803mila euro, di cui 93mila per interessi legali e rivalutazione monetaria.

SPESA DEL PERSONALE E INCARICHI A ESTERNI – Quanto ai costi, l’Istituto ha registrato un sensibile incremento, pari al 41%, della spesa di personale nel triennio 2017-2019. Si è passati da 3,9 a 5,6 milioni (valore al netto degli oneri riflessi). Ma l’istituto si avvale, oltre che di personale a tempo indeterminato e determinato, anche di collaboratori e consulenti (sia nelle attività istituzionali che in quelle di ricerca). All’aumento della spesa del personale, però, non è conseguita una contrazione della spesa per gli ‘Incarichi libero professionali di studi, ricerca e consulenza’, che ammonta a circa 2 milioni, solo il 5% in meno rispetto al 2017. “Particolarmente rilevante, oltre che costante negli anni – scrivono i giudici – il ricorso a un significativo numero di incarichi esterni per la costruzione delle prove di apprendimento di italiano, matematica ed inglese”. Si parla di 122 nuovi incarichi attribuiti nel 2019, con compensi variabili dai 1.500 ai 15.500 euro per ciascun esperto (a seconda che si tratti di esperto o esperto senior). Ma i giudici contabili sottolineano il ricorso a “incarichi triennali, tuttora in corso, di coordinamento scientifico-tecnico della produzione delle domande” con importi per singolo incarico di 108mila euro. Per l’oggetto della prestazione (costruzione delle prove di apprendimento e relativo coordinamento), inoltre, trattandosi di attività direttamente riconducibili all’attività istituzionale dell’Istituto “e che dovrebbero essere svolte con personale interno” la reiterazione e la quantità di questi incarichi pongono “significativi problemi di compatibilità” con il decreto legislativo 165 del 2001, che ne prevede un ricorso eccezionale e temporaneo.

UN MILIONE DI EURO A 91 ESPERTI IN QUIESCENZA – Ma c’è un’altra “grave criticità” riguardo alle procedure di affidamento finora svolte. “Da un’analisi degli incarichi conferiti per la costruzione delle prove di apprendimento nel triennio 2018-2020 – scrive la Corte – è emersa la corresponsione di più di un milione di euro a 91 esperti risultati in quiescenza”. E alla luce delle verifiche effettuate dal Collegio dei revisori, supportate anche dalle valutazioni dell’Avvocatura dello Stato, emerge “una non conformità dei relativi contratti” con la disciplina disegnata, tra l’altro, dalla legge 135 . “L’oggetto delle relative prestazioni appare riconducibile – si legge nel documento – nella nozione di incarichi di studio e consulenza vietati dalla legge”. Al riguardo l’Istituto ha evidenziando che sono state già internalizzate le competenze relative alle metodologie di costruzione e di analisi delle prove, mentre non sarebbe possibile farlo anche “con le competenze che attengono alla didattica delle discipline d’italiano, matematica e inglese in ambito scolastico o universitario”. Ciò in quanto, ad avviso dell’Istituto, “per poter contribuire alla redazione dei test di apprendimento, la caratteristica essenziale che devono possedere gli esperti necessari è quella di essere ‘interni’ alla scuola o all’università, dunque ulteriore e diversa rispetto a quella degli esperti (ricercatori) interni”. Argomentazione che, però, non ha convinto la Sezione Controllo Enti della Corte dei Conti, secondo cui “fermo restando che si tratta di incarichi vietati in quanto svolti a titolo oneroso, in ogni caso”, la criticità è rappresentata dal “numero assolutamente significativo”, in particolare, di quelli relativi ai ruoli più importanti di coordinamento “ripetutamente conferiti a soggetti già da diversi anni in quiescenza e, dunque, non più ‘interni’ alla scuola o all’università”.
Fonte : "Il Fatto Quotidiano" del 13 agosto 2021

Il Manifesto per la nuova Scuola è un documento elaborato da un gruppo di insegnanti di tutta Italia riuniti nel movimento “La nostra scuola” e sottoscritto da moltissimi docenti universitari e da intellettuali come Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Edoardo Lombardi Vallauri, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Ana Millan Gasca, Tomaso Montanari, Filippomaria Pontani, Adriano Prosperi, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky. La proposta del manifesto è incentrata su alcune idee fondamentali: la scuola democratica deve alfabetizzazione, istruire, educare, aiutare a crescere tutti i futuri cittadini; per farlo, deve restituire valore al sapere e proporre contenuti culturali significativi e appassionanti, che vengano continuamente rielaborati e attualizzati attraverso la relazione tra insegnanti e studenti; gli strumenti e i metodi che si utilizzano per far apprendere non possono essere standardizzati, a sé stanti, burocratizzati, ma devono essere adeguati e adattati di volta in volta agli studenti e alla classe, ai contenuti culturali che si vogliono proporre, alle finalità culturali ed educative che si hanno in mente. Inoltre, tutto il tempo della scuola deve essere dedicato all’insegnamento e all’apprendimento, senza derive burocratiche, sprechi di tempo e totalitarismi metodologici che irrigidiscono e inaridiscono il rapporto educativo (oggi invece, proprio mentre si parla ipocritamente di centralità dello studente, assistiamo a un’orribile idolatria astratta, letteralmente de-mente, dei mezzi, degli strumenti e dei metodi). Occorre mettere al centro l’ora di lezione e la concreta attività didattica – in un “corpo a corpo” continuo tra insegnanti e studenti, basato soprattutto sulla parola e la verifica costante del lavoro svolto -, per contrastare la diffusione a macchia d’olio dell’analfabetismo tra le nuove generazioni, acuita da vent’anni di disastrose riforme e dal lungo periodo di sospensione dell’attività didattica in classe. Infine, poiché nella scuola apprendimento e relazione sono inscindibili, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti dell’età evolutiva, per sciogliere eventuali nodi relazionali e poter aiutare meglio i propri studenti a crescere. (continua)

 

I risultati delle prove Invalsi 2021, le prime svoltesi in un anno scolastico interamente condizionato dalla pandemia, sono un utile spunto per ragionare sullo stato della scuola italiana. Nonostante la prudenza che è sempre necessaria per interpretare il valore e il significato di una fonte statistica, è difficile non convenire sulla criticità della situazione mostrata da questi dati. Come era ragionevole attendersi, la pandemia e la didattica a distanza hanno aggravato i divari sociali e territoriali, acuendo le criticità già esistenti nel sistema scolastico. Il vero problema è che di fronte a questo scenario le prospettive di intervento sulla scuola sembrano perseverare in una strategia, avviata con l’introduzione dell’autonomia scolastica negli anni Novanta, che in realtà non ha dato sin qui grandi risultati. Si parla di superare la “cultura del sapere e della conoscenza” a vantaggio di non meglio precisate “competenze” che andrebbero a formare, in una prospettiva economicistica, il “capitale umano” dei futuri lavoratori. Tutto questo mentre, semplicemente, molti studenti non sanno leggere e scrivere; mentre cioè la scuola non è in grado di assolvere pienamente alla sua funzione costituzionale, quella di promuovere l’emancipazione dei futuri cittadini attraverso l’istruzione. (continua)

Ha suscitato molto scalpore qualche giorno fa la pubblicazione dei dati Invalsi 2021. E non poteva essere altrimenti. Veniamo da un anno e più di dad, la famigerata didattica a distanza, ed è comprensibile che si volesse conoscere l’effetto sugli apprendimenti degli studenti. A sentire l’Istituto nazionale di valutazione del nostro sistema scolastico (Invalsi), è stato pessimo. Quando l’Invalsi misura la scuola italiana quale scuola misura, quella di ieri o quella che è stata pervicacemente costruita in questo ormai lungo periodo riformatore? Non è una domanda da poco. Dalla risposta dipende anche un giudizio sulla natura effettiva di questo istituto e delle sue stime. Se infatti la scuola non è più ormai da molto tempo la “vecchia scuola”, quella che si portava appresso lo stigma originario di “gentiliana”, l’uso polemico delle rilevazioni statistiche per rivendicare la necessità di un’ulteriore riforma appare per quello che è: il tentativo di coprire un fallimento; e un modo per estorcere ad un’opinione pubblica ammutolita dall’ingiunzione intimidatoria dei numeri, i famosi dati, un’ ulteriore delega alla demolizione di ciò che resta della scuola pubblica repubblicana. (continua)

Poiché la realtà si manifesta solo alla conoscenza disinteressata, acquisirla è il fine essenziale della scuola. Insensibile al significato della teoresi, il recente libro ‘Nello specchio della scuola” del ministro Bianchi si mantiene fedele alla riforma dell’autonomia scolastica e alla dispersione dei compiti della scuola tra addestramento al lavoro esecutivo, indottrinamento ideologico e dilettantismo ricreativo. Non la preoccupazione per il disastro della scuola, ma quella per la crisi dell’economia italiana lo induce a invocare come panacea didattica un aumento di spesa in suo favore; infatti non rinuncia al progetto assurdo di ridurre di un anno l’istruzione secondaria e imputa i dati orribili sull’ignoranza degli alunni italiani alla didattica del Novecento, nonostante la sua antica estinzione. Dalle pagine del suo libro esce così assolta l’autonomia scolastica, una rivoluzione dall’alto contro lo spirito della scuola che, discacciatene le discipline, ha dapprima voluto trasformarla in una congerie di istituti professionali legati alle economie locali e infine l’ha ridotta a un’azienda per l’erogazione di servizi assistenziali. Ripromettersi il miglioramento della scuola conservandovi la causa del male, l’autonomia, è un controsenso. (leggi)