Anche dopo gli aumenti, i salari dei docenti italiani non sono allineati a quelli dei colleghi degli altri Paesi. Ma se si guarda al potere d'acquisto, basta poco per avvicinarsi ai migliori livelli del Continente. 

A metà marzo il ministero dell’Istruzione ha sbloccato altri 300 milioni per l’aumento degli stipendi degli insegnanti della scuola italiana. Negli ultimi sei mesi i docenti (e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, Ata) hanno così visto crescere la busta paga di 124 euro (valore medio), una cifra che non è però sufficiente a colmare il gap delle retribuzioni rispetto agli altri grandi Paesi europei. 

Secondo la pubblicazione “Teachers’ and School heads’ salaries and allowances, 2020/2021” di Eurydice, la la rete europea di informazione sull'istruzione che fa capo all’Unione Europea, nel Belpaese lo stipendio lordo parte da un minimo di 24.297 euro per arrivare a un massimo di 40.597 euro a fine carriera (nb: la pubblicazione è precedente rispetto ai recenti aumenti e non ne può dunque tenere conto, ma la sostanza non cambia molto). La differenza di retribuzione è particolarmente ampia se si guarda agli standard tedeschi: si parte da un minimo di 54.129 euro per arrivare fino a 85.589 euro. In Germania dunque lo stipendio di un insegnante è più del doppio di quello italiano. La Francia è più vicina a noi che a Berlino: si va da un minimo di 26.839 euro a un massimo di 50.424 euro. E lo stesso vale per la Spagna, che resta comunque sopra i livelli italiani. Il minimo della retribuzione è pari a 30.992 euro e il massimo a 49.307 euro.

Gli insegnanti più “ricchi” dell’Unione Europea si trovano in Lussemburgo. Chi entra nella scuola parte subito da uno stipendio lordo di 69.076 euro; chi è invece vicino alla pensione può arrivare fino a 136.079 euro. Gli insegnanti lussemburghesi hanno anche un leggero vantaggio fiscale rispetto a quelli italiani: 69.076 euro sono soggetti all’equivalente di una tassazione Irpef del 39% e 136.079 euro a una del 40%. In Italia questi redditi ricadrebbero entrambi nello scaglione più alto, quello del 43% che si applica a partire dai 50mila euro. E anche gli scaglioni più bassi sono meno tassati in Lussemburgo che in Italia.

Gli esperti di Eurydice rilevano come non vi siano solo grandi differenze nei primi stipendi ma anche nelle possibilità di crescita di questi ultimi. Si va da un progresso minimo del 16% in Danimarca e Serbia ad un massimo del 142% di Cipro. Il numero medio di anni necessari per raggiungere il massimo della retribuzione va dai 12 della Danimarca ai 42 dell’Ungheria. In Irlanda, Cipro, Paesi Bassi e Polonia, lo stipendio iniziale degli insegnanti può aumentare di oltre il 60% nei primi 15 anni di servizio. “Anche in altri Paesi, l’aumento percentuale totale è elevato ma è tuttavia necessaria una lunga anzianità di servizio per raggiungere il massimo della scala retributiva - scrivono gli esperti di Eurydice - In Portogallo, ad esempio, lo stipendio finale è più del doppio di quello iniziale (115,9%), ma gli insegnanti arrivano a percepirlo solo dopo 34 anni di servizio. In Francia, per fare ancora un altro esempio, gli stipendi iniziali aumentano del 72% in 35 anni di servizio. Ci sono poi Paesi, e questo è anche il caso dell’Italia, in cui gli insegnanti hanno bisogno di una significativa anzianità di servizio per raggiungere aumenti di stipendio piuttosto modesti. Nel nostro Paese, infatti, gli stipendi iniziali degli insegnanti possono aumentare di poco meno del 50% solo dopo 35 anni di servizio. Più o meno lo stesso accade in Spagna dove gli insegnanti raggiungono l’aumento massimo del 42% dopo ben 39 anni di servizio”.

Partendo dai dati raccolti da Eurydice, l’Osservatorio Cpi (Conti pubblici italiani) dell’Università Cattolica ha calcolato che portare gli stipendi italiani (30.784 euro in media) al livello della media europea (44.408 euro) avrebbe un costo annuo pari a 11,6 miliardi di euro. Questa cifra potrebbe però scendere parecchio se la riforma degli stipendi tenesse conto del potere di acquisto, cioè delle quantità di beni e servizi che si possono acquistare grazie alla retribuzione. Con uno stanziamento annuo pari a 2,9 miliardi di euro da parte del governo gli insegnanti italiani sarebbero messi nella condizione di avere lo stesso tenore di vita dei loro colleghi europei.

Grafico a cura di Silvano Di MeoGrafico a cura di Silvano Di Meo

“Se si tiene conto del potere d’acquisto, più alto in Italia perché i prezzi sono più bassi, il divario retributivo si riduce molto, fino 3.352 euro - spiega Michela Garlaschi, economista dell’Osservatorio Cpi - Infatti, lo stipendio medio lordo contrattuale annuo di un docente italiano a parità di potere d'acquisto è di 29.669 euro, mentre quello dell'Eurozona è di 33.021 euro. Occorre anche tenere conto della diversità dei Pil pro capite, per il fatto che un Paese più ricco può permettersi stipendi più alti. Ma qui ci sono delle sorprese perché negli altri Paesi gli stipendi degli insegnanti in rapporto al Pil pro-capite sono più alti che in Italia, ma il Pil pro capite dell’Italia è molto più basso di quello dell’Eurozona (meno 19,3 per cento). Lo stipendio lordo medio di un docente italiano (30.784 euro) supera il Pil pro-capite dell’Italia (30.040 euro) solo del 2,5 per cento. Nell’Eurozona invece lo stipendio medio (44.408 euro) supera il Pil pro-capite (35.850 euro) del 23,9 per cento”.

Quindi per portare lo stipendio degli insegnanti allo stesso rapporto con il Pil pro-capite che prevale negli altri Paesi bisognerebbe portare lo stipendio medio a 37.211 euro, ossia il 23,9 per cento in più del Pil pro-capite dell’Italia. L’ aumento sarebbe di 6.428 euro (più 20,9 per cento). In questo caso il costo della riforma sarebbe di 5,5 miliardi.

Insomma, da qualsiasi angolazione si affronti il problema della retribuzione degli insegnanti italiani, la conclusione, seppur con diverse sfumature, è sempre la stessa: i docenti della scuola italiana vengono pagati meno (in media) dei loro colleghi europei.

nbspGrafico a cura di Silvano Di Meo Grafico a cura di Silvano Di Meo

Dal 1980 c'è Eurydice, la rete di informazione nel settore educativo

La rete di informazione sull’istruzione in Europa Eurydice è stata istituita dalla Commissione europea e dagli Stati membri nel 1980 per incrementare la cooperazione nel settore educativo. Dal 1995 Eurydice è stata parte integrante di Socrates, il programma di azione comunitaria in materia di istruzione, dal 2007 del programma per l’apprendimento permanente Llp, dal 2014 è parte di Erasmus+, il programma europeo per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport. Anche se di emanazione comunitaria, Eurydice coinvolge nel programma Erasmus+ anche dieci Paesi extra-Ue: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Islanda, Liechtenstein, Montenegro, Norvegia, Serbia, Svizzera e Turchia

Fonte: La Repubblica 27/03/2023 

https://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/conad/2023/03/27/news/lo_stipendio_dei_pr...

Questo modo di pensare al successo nasce da un principio apparentemente attraente: il principio meritocratico, il principio che dice che, nella misura in cui le possibilità di partenza sono uguali, i vincitori meritano la loro vincita. Ora sappiamo che è un dato di fatto che le possibilità non sono veramente uguali nelle nostre società, e quindi siamo tentati di pensare che la soluzione alla disuguaglianza e al divario tra vincitori e vinti sia semplicemente quella di rendere le nostre società ancor più meritocratiche, di fare ancora meglio per renderci all’altezza dei principi meritocratici che professiamo. Ed è certamente importante cercare di porre rimedio alle disuguaglianze di opportunità che persistono nelle nostre società, ma non basta. Non basta semplicemente creare una meritocrazia più perfetta, e il motivo è che l’ideale meritocratico in quanto tale ad essere sbagliato.

Ora hai menzionato, Umberto, tre motivi per i quali sostengo che il merito si riveli un principio che reca con sé un frutto avvelenato. Prendiamo una persona di grande successo, qualcuno che guadagna molti soldi, il grande calciatore Lionel Messi, per esempio. Ora, ammiriamo Messi, ma sappiamo che in larga misura egli è il campione che conosciamo grazie a doni e talenti innati, grandi doni atletici che, nonostante tutta la sua dura pratica e impegno, non sono propriamente tutta opera sua. Sono la sua benedizione. È fortunato ad averli. Secondo, il fatto che a Messi capiti di vivere in una società e in un momento storico che premia e retribuisce così tanto i talenti che a Messi capita di avere come grande calciatore, anche quello non è propriamente opera sua, anche quella è una sua fortuna. Se Messi fosse vissuto ai tempi del Rinascimento, egli avrebbe scoperto che a quel tempo la gente non aveva nessun interesse per il calcio. Si tenevano in gran conto i maestri nell’arte degli affreschi. Quindi c’è un secondo aspetto – temporale – della fortuna, come hai fatto notare. E infine, c’è la caratteristica della hubris, o arroganza. Una meritocrazia, anche una meritocrazia perfettamente realizzata, invita e incoraggia l’uomo di successo ad inebriarsi troppo profondamente del profumo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e la buona sorte che lo hanno aiutato nel compiersi del suo cammino. Quindi una meritocrazia, anche una meritocrazia pienamente realizzata, produce arroganza nei vincitori e umiliazione tra coloro che sono rimasti indietro.

Queste sono le tre obiezioni di principio della meritocrazia. Ora fai una domanda molto importante: qual è il rapporto tra meritocrazia e, dici tu, proprietà privata? Direi una sorta di fede trionfalista del mercato che ha predominato negli ultimi decenni di globalizzazione neoliberista. Penso che ci sia una connessione tra meritocrazia e proprietà privata, una connessione tra meritocrazia e l’ideologia del mercato che è arrivata a dominare negli ultimi decenni.

L’arroganza che produce, il divario che crea tra vincitori e vinti: penso che ci sia una connessione tra questi elementi e la versione della globalizzazione neoliberale guidata dalla finanza, ispirata al fondamentalismo del mercato, che abbiamo visto trionfare negli ultimi decenni. E il nesso è questo: Max Weber, il più grande sociologo tedesco, in realtà lo diceva bene un secolo fa, quando osservava che chi ha successo vuole più del successo, vuole credere di meritare il proprio successo e di meritarselo in relazione a quelli che hanno avuto meno successo. Questa intuizione di Max Weber 100 anni fa, credo, ci aiuta a cogliere la connessione tra la disuguaglianza causata dalla globalizzazione neoliberista negli ultimi quattro decenni e gli atteggiamenti arroganti coltivati da quanti hanno successo, in una connessione si è fatta sempre più forte e stringente nel tempo. Nella tua domanda, hai ricordato le origini del pensiero meritocratico nel dibattito sulla salvezza nella storia del pensiero cristiano, un dibattito nel quale ci si chiedeva se la salvezza fosse guadagnata dall’uomo (e questa era la posizione meritocratica) o se la salvezza fosse un dono, un atto della grazia di Dio.

La tensione tra merito e dono, tra ciò che si guadagna e ciò che si riceve per una sorta di Grazia, in termini secolari oggi blocca questa dialettica, questa tensione risalente a molto tempo fa. È quello di cui siamo testimoni oggi. Oggi nelle nostre società secolarizzate non siamo più propensi a chiederci se la salvezza è una questione di merito individuale, ma viviamo guidati da una potente retorica politica che ci ripete che il successo materiale è una questione di merito, più di quanto non sia una questione di fortuna e di possibilità, una specie di regalo della sorte. La globalizzazione neoliberista è arrivata ad ampliare le disuguaglianze di reddito e ricchezza, ma anche – ed è qui che la meritocrazia si rivela la compagna morale della globalizzazione neoliberista – la meritocrazia finisce per offrire un conforto morale a quanti hanno avuto successo, dicendo loro che non solo sono in cima, ma che meritano di esserlo. È questo atteggiamento, combinato con le disuguaglianze, credo, ad aver alimentato gran parte della rabbia, della frustrazione, del risentimento e del senso di rivincita che vediamo oggi serpeggiare politicamente nelle società di tutto il mondo. Sono questi i fattori che hanno alimentato quella sorta di contraccolpo che abbiamo sperimentato negli Stati Uniti nel 2016 [con la vittoria di Donald Trump, n.d.t.]. E finché non affronteremo questo divario sempre più profondo, che non riguarda solo il reddito e la ricchezza, ma anche la dignità, il riconoscimento sociale e la stima, finché non affronteremo questo problema, penso che la democrazia e i legami morali che ci tengono uniti in quanto cittadini democratici continueranno ad essere fragili e ad essere pronti a dissolversi.

UMBERTO IZZO. Grazie, Michael. Una seconda domanda riguarda la retorica dell’ascesa, che è un ritornello familiare della meritocrazia, e tu la descrivi come la promessa che tutti dovrebbero essere in grado di elevarsi fin dove la loro forza e il loro talento li possono portare. Meraviglioso. Questa promessa è stata insistentemente tradotta, almeno negli Stati Uniti, nell’idea che la mobilità individuale verso l’alto potesse essere promossa attraverso l’istruzione superiore. Viviamo in un mondo di disparità di ricchezza, ma qualsiasi individuo, comunque, grazie all’istruzione superiore, può prendere parte a questa corsa verso l’alto, una corsa che inevitabilmente creerà vincitori e vinti.

Come probabilmente saprai, in Italia la percentuale di popolazione in possesso di un titolo universitario è molto inferiore che negli Stati Uniti. Nel nostro Paese abbiamo vissuto gli anni dell’ascesa della globalizzazione con una retorica politica tesa a sottolineare l’alto tasso di disoccupazione delle persone in possesso di una istruzione universitaria. I governi italiani negli ultimi anni hanno adottato politiche ispirate all’idea che l’istruzione dovrebbe forgiare soprattutto lavoratori specializzati per le esigenze delle piccole e medie imprese italiane, e l’attuale governo sembra intenzionato a proseguire su questa strada. Così, paradossalmente, si impiegano argomentazioni meritocratiche per giustificare questa forma di adattamento delle istituzioni educative al mercato del lavoro. Se così è, fino a che punto l’argomento della retorica dell’ascesa che ho prima descritto può conciliarsi con lo scenario italiano? Più in generale, quale dovrebbe essere secondo te il rapporto socialmente desiderabile che andrebbe instaurato tra la scuola, e non solo quella di élite, e il mercato? Grazie.

MICHAEL SANDEL. Bene, grazie anche per questa domanda, ricca di temi molto interessanti, e vorrei iniziare con la retorica dell’ascesa. La retorica dell’ascesa dice che tutti dovrebbero essere liberi di elevarsi fin dove i loro sforzi e talenti li porteranno, qualunque sia il loro background. Ora, a prima vista, chi potrebbe non essere d’accordo? Chi potrebbe non farsene convincere? Perché rimuovere gli ostacoli al successo è una buona cosa. È una cosa fondamentale per creare le condizioni ideali nelle quali possa darsi una società della fiducia. Il problema con la retorica dell’ascesa, però, è che essa devia l’attenzione e la responsabilità per l’ampliamento della disuguaglianza dalla società dalla comunità politica nel suo insieme all’individuo. Abbiamo sentito questa retorica più e più volte negli ultimi quattro decenni. Ci è stato detto: se vuoi competere e vincere nell’economia globale, vai all’università. Ciò che guadagni dipenderà da ciò che impari. Puoi farcela se ci provi. Quello che le élite, i politici e i partiti politici, il centrosinistra e il centrodestra, non riescono a vedere è che in questo incoraggiante consiglio, in questa promessa di alimentare la mobilità verso l’alto attraverso l’istruzione superiore, si dà un insulto implicito rivolto all’individuo. L’insulto è questo: se non stai prosperando nella new economy e se non sei andato all’università, allora il tuo fallimento è solo colpa tua. Non c’è quindi da stupirsi che moltissimi lavoratori e la maggioranza dei cittadini negli Stati Uniti, così come in Italia, non abbiano una laurea. Quindi è una follia creare un’economia che pone, quale condizione necessaria per svolgere un lavoro dignitoso e vivere una vita dignitosa, un diploma universitario che la maggior parte delle persone nelle nostre società non ha. Ora, tu hai accennato al contesto italiano, nel quale l’istruzione viene sempre più razionalizzata e giustificata per preparare le persone al mercato del lavoro. Questo è uno degli scopi dell’istruzione: preparare le persone a diventare cittadini produttivi nell’economia e nella società in cui stanno per entrare. Ma non è certamente questo l’unico scopo. Lo scopo più alto dell’istruzione è fornire quel tipo di educazione morale e civica che coltiva buoni cittadini e che consente agli studenti di vivere i loro anni – direi soprattutto quelli spesi nell’istruzione superiore, se frequentano l’università – come un momento di crescita e di esplorazione individuale, per capire quali scopi e percorsi sono degni di loro, cosa vale la pena preoccuparsi vivendo nella società e perché. Questo è ciò di cui si occupa l’istruzione nelle c.d. liberal arts. Non è una istruzione solo strumental-funzionale. Essa non serve solo a formare lavoratori e dirigenti per il mercato del lavoro. Serve per coltivare il ragionamento critico e la riflessività morale. Quello che è accaduto nelle nostre società è che abbiamo scelto di rendere l’istruzione, e in particolare l’istruzione superiore, una specie di grande macchina selezionatrice asservita a una società meritocratica guidata dal mercato. Le università sono le istituzioni che dispensano le credenziali e definiscono il merito che una società meritocratica e orientata al mercato premia. Questo sembrerebbe conferire a queste istituzioni un grande prestigio e una centralità nella vita sociale, e per molti versi questo è vero. Ma penso anche che questa dinamica segni una sorta di corruzione dell’istruzione superiore, perché il pericolo è che la nostra funzione di accreditamento metta definitivamente fuori gioco la nostra missione educativa.

Ho parlato fin qui dell’istruzione superiore e di come essa possa corrompersi se la si concepisce, la si difende e la si giustifica in modo ostinato come un modo – il solo modo – per dispensare credenziali e preparare le persone al mercato del lavoro. Ma mi hai chiesto anche di considerare il ruolo delle scuole, primarie e secondarie. Queste due istituzioni hanno una missione civica, non solo economica. Se l’istruzione superiore si pone come scopo coltivare il pensiero critico dei cittadini per farne persone moralmente riflessive, che dire di quanti non frequentano l’istruzione superiore? E che dire della loro educazione civica? Questo ci permette di ritornare a una domanda che hai fatto prima, facendo eco a Romano Prodi, per chiederci: qual è l’alternativa? Parte dell’alternativa è concepire l’educazione morale e civica come qualcosa che può realizzarsi e fiorire non solo all’interno delle università – lì è importante rafforzarla – ma dovrebbe esserci, credo, un’ampia diffusione dell’educazione morale e civica attraverso le istituzioni all’interno della società civile. Nella scuola – primaria e secondaria, certo – ma direi anche in altre istituzioni della società civile: nei sindacati, nei centri sociali, nelle comunità religiose. Quindi l’alternativa, in senso lato, per andare a una delle grandi domande che mi hai posto, Umberto, l’alternativa alla meritocrazia, che cos’è esattamente? Ebbene, i difensori della meritocrazia diranno che l’unica alternativa è un’aristocrazia ereditaria, in cui il posto di una persona nella vita è fissato da un caso che dipende dalla sorte: come e dove si nasce. E, diversamente dal retaggio delle antiche aristocrazie feudali, la meritocrazia oggi si propone in una veste che sembra qualificarla come uno strumento di libertà e uguaglianza. Le persone sono libere di elevarsi, nessuno è consegnato al destino dato dal fato che ne ha governato la nascita in una famiglia o in un’altra: tutto ciò è potentemente liberatorio. Ma, a dispetto di ciò, oggi la meritocrazia di fatto cristalizza in gran parte le condizioni fortuite che dipendono dalla circostanza di esser nati in un certo contesto familiare, soprattutto quando il meccanismo di trasmissione del privilegio e del vantaggio passa attraverso la possibilità di competere per l’accesso all’istruzione superiore.

Oggi, l’alternativa alla meritocrazia non è l’aristocrazia: è la democrazia, un tipo di democrazia che descriverei come quella di una società che riesce a perseguire un’ampia uguaglianza nella condizione e nella partecipazione democratica. L’alternativa che ho in mente non è una sterile società che livella i risultati dei singoli, come veniva preconizzato negli scritti distopici, per esempio, di Kurt Vonnegut, il quale immaginava la storia di un personaggio chiamato Harrison Bergeron, costretto a vivere in una opprimente società del futuro, dove i talenti devono essere soppressi per imporre una sorta di sterile uguaglianza. L’alternativa alla meritocrazia non è livellare le persone, privarle della possibilità di esercitare i propri talenti e i propri doni, ma creare un’ampia uguaglianza democratica di condizioni, nella quale tutti siano riconosciuti e onorati per il contributo che singolarmente danno all’economia e al bene comune, come ci hanno ricordato i tempi della pandemia e il debito contatto dalle società nei confronti di infermieri, commessi, autisti, i quali hanno permesso alla società di continuare a vivere in quel difficile frangente. E ciò richiede, Umberto, un’educazione morale e civica largamente diffusa, perché tutti possano condividere l’apprendimento, ma anche perché tutti possano coltivare la capacità di esercitare la propria voce nella democrazia, svolgendo attività di cui la società riconosca la dignità.

UMBERTO IZZO. Grazie, grazie Michael, per questa risposta molto chiara. Ho una terza domanda – se riusciamo ad usare il tempo che abbiamo – che riguarda la nostra condizione, la nostra condizione di professori e persone che lavorano nell’università e nella scuola. Nell’indice analitico della Tirannia non vi è un riferimento esplicito alla voce “metrica”. Un elemento chiave per applicare l’idea di meritocrazia agli individui e alle istituzioni educative è che una società meritocratica deve necessariamente dotarsi di strumenti per misurare il merito. Del resto, nel tuo libro hai anche fatto molti riferimenti ai test standardizzati per l’ammissione all’università negli Stati Uniti. Quando, come è successo in Italia, un intero sistema pubblico di istruzione, dalla scuola all’università fino ai dottorati ultimamente, viene politicamente riconfigurato, inneggiando alla retorica del merito, l’idea di meritocrazia non è solo viene elevata a paradigma cui ispirare l’ammissione degli studenti e l’avanzamento negli studi nelle istituzioni educative d’élite, ma finisce per avere un impatto anche sulle persone che lavorano e si impegnano in qualsiasi istituzione educativa.

Negli ultimi 20 anni in Europa e in Italia almeno dal 2010 scuole e università hanno ampiamente adottato metriche pervasive per misurare il merito di alunni, studenti e professori, e anche le istituzioni educative stesse, per premiarle nella distribuzione delle risorse pubbliche. Qual è la tua opinione su questa “meritocrazia istituzionale”, dove il merito si compie ricorrendo alle metriche, con tutti i pericoli che ogni sistema metrico può comportare e con tutti gli effetti distorsivi che si nascondono nei dettagli di questi sistemi metrici? Grazie.

MICHAEL SANDEL. Sono molto scettico su queste metriche e penso che la tirannia del merito sia strettamente collegata a una concezione molto ristretta delle metriche che misurano il merito. Nella nostra società contemporanea ci sono essenzialmente due tipi di metriche che insieme esercitano e rafforzano questa tirannia. Uno di questi è il denaro e l’altro sono i punteggi dei test misurati da test standardizzati. Uno dei presupposti profondi, molto difficili da contrastare, della nostra società è che il denaro che le persone guadagnano identifichi (o finisca per raffigurare) la misura del loro contributo al bene comune. Ma questo è un grave errore. Chiunque, ad eccezione forse dei più estremi pensatori libertari, idolatri del laissez-faire del mercato, farebbe fatica a sostenere, ad esempio, che il gestore di un hedge fund o un magnate di un casinò di successo che guadagnano mille volte di più di un insegnante di scuola o di un medico meritino di guadagnare mille volte di più, perché il gestore di hedge fund o il magnate del casinò contribuiscono più di mille volte al valore all’economia di quanto non faccia un insegnante di scuola o un medico. Riflettendo sul valore del contributo sociale, sarebbe molto difficile sostenere questa posizione. E, se questo è vero, allora non può essere vero che il denaro che le persone guadagnano, la metrica sociale della nostra contemporaneità, sia la vera misura del contributo che le persone danno al bene comune e quindi la base della loro meritevolezza, per riportarsi alla meritocrazia.

Quindi, un’implicazione di questo argomento è che se vogliamo iniziare a sfidare la presa che una meritocrazia di mercato esercita sull’allocazione del reddito e della ricchezza, ma anche sull’onore, sul riconoscimento e sulla stima sociale degli individui, dobbiamo riuscire a strappare ai mercati la funzione sociale di tradurre il giudizio morale su quanto abbia valore e sia prezioso in quanto contributo all’economia e al bene comune o sociale. È come se, soprattutto negli ultimi decenni, avessimo esternalizzato, consegnandolo ai mercati, il compito di esprimere il nostro giudizio morale sul valore sociale. Un motivo importante per cui lo si è fatto è la consapevolezza che qualora noi cittadini democratici scegliessimo di discutere per decidere che cosa identifichi un prezioso contributo alla società, ci troveremmo fatalmente in disaccordo. Viviamo in società pluraliste; le persone hanno concezioni diverse sugli scopi e sui fini sociali, e quindi su ciò che conta quale contributo al bene comune o sociale.

E così, si è tentati di impiegare un meccanismo apparentemente neutrale per decidere la questione di ciò che conta quale contributo prezioso per la società. Penso che l’attrattiva o la lusinga più profonda dei mercati, anche al di là della promessa di offrire prosperità e abbondanza, stia nel fatto di offrirci, di prometterci, la possibilità di risparmiare a noi stessi l’altrimenti inevitabile necessità di condurre dibattiti incerti e controversi su come valutare beni, contributi, servizi e lavoro. Penso però che dovremmo cominciare a opporre resistenza a questa tentazione. Diventando consapevoli che la promessa dei mercati è in realtà una falsa promessa, perché i mercati non sono, alla fine, un modo veramente neutrale di misurare il valore quando si tratta di decidere su questi valori.

E quindi, penso che parte di ciò che dobbiamo fare – e questo ritorna alla tua domanda su quale sia l’alternativa – è creare le condizioni perché ci venga offerto un tipo di discorso pubblico moralmente più robusto rispetto al tipo discorso che ci è stato proposto e a cui ci siamo ormai assuefatti. Un discorso che affronti direttamente e apertamente questa domanda e offra ai cittadini democratici la possibilità di valutare davvero in che cosa consista un valido contributo al bene comune e sociale. Altrimenti continueremo ad essere soggetti alla tirannia della metrica del denaro come misura del merito e del contributo dato da ciascuno alla società [Sandel ha sviluppato compiutamente questa idea nel suo libro del 2012 Quello che il denaro non può comprare. I limiti morali del mercato, 2021, Feltrinelli, n.d.T.] .

Ora, per quanto riguarda i test standardizzati, penso che anche loro abbiano finito per esercitare un’influenza perniciosa. Poiché si tende a dare per scontato – contrariamente a quanto poi emerge in pratica – che la propria pretesa di essere ammessi all’istruzione superiore e alle università d’élite competitive possa esser adeguatamente misurata solo dal punteggio conseguito svolgendo un test standardizzato.

Ma questi test sono altamente orientati ai risultati e i punteggi conseguiti nei test sono altamente correlati al reddito e la ricchezza della famiglia di appartenenza (specie se i componenti di quest’ultima hanno a loro volta frequentato l’università) del candidato che con essi si cimenta. E un altro modo in cui le metriche entrano in gioco – anche al di là dei test standardizzati, per quanto mi è dato capire in molte università europee – è il peso crescente che viene attribuito alle metriche di ricerca attraverso le quali vengono formulate le misurazioni quantitative degli indici di citazione dei professori e dei ricercatori, come un modo per classificare le università, soprattutto per finalità di sostegno pubblico.

Io penso che queste metriche, e con esse l’idea che i contributi alla conoscenza possano essere misurati quantitativamente e classificati in base a questi indici di citazioni, siano tanto discutibili quanto il fatto di credere che i punteggi dei test standardizzati siano la vera misura delle doti intellettuali e del potenziale dei giovani. E così, proprio come dobbiamo mettere in discussione la metrica del denaro, mentre il mercato del lavoro esprime il suo verdetto inappellabile su ciò che ha valore per la società, così penso che dovremmo mettere in discussione l’attuale entusiasmo per le metriche quantificabili escogitate per misurare il potenziale dei giovani che chiedono l’ammissione, oppure la qualità scientifica dei ricercatori e dei professori misurati sulla base di questi indici di citazione. Questi possono dirti qualcosa, ma quello che ci dicono è così limitato che penso sia un errore fatale far dipendere da questi dati la misura del sostegno pubblico all’istruzione superiore a favore di una o di un’altra università.

UMBERTO IZZO. Grazie, grazie ancora Michael, e mi chiedo se posso ancora farti ancora una breve domanda, che riguarda quanto accaduto qualche giorno fa all’Università di Padova. Ti ho inviato la traduzione del discorso davvero incisivo che la rappresentante degli studenti di quell’ateneo ha tenuto alla presenza della nostra ministra dell’università. E poiché quest’aula è piena di studenti e a loro sarà data voce nella tavola rotonda di chiusura della conferenza, credo sia molto interessante considerarlo. Non abbiamo tempo, ovviamente, per ascoltare il discorso qui, ma chi ha avuto la possibilità di ascoltarlo credo possa convenire che quel messaggio parli da solo nel descrivere la condizione di molti studenti universitari italiani medi: stress, tentativi di suicidio e così via. Come ti sentiresti di commentare il riferimento fatto da quella studentessa di Padova all’ideale meritocratico americano e alle conseguenze che quell’ideale determina sulla condizione umana e sulle aspettative di vita degli studenti?

MICHAEL SANDEL. Sono rimasto molto colpito e commosso leggendo la traduzione che mi hai inviato del discorso pronunciato dallo studente di Padova. Gli studenti, in particolare quelli che competono per l’ammissione alle migliori università, sono sottoposti a un’enorme pressione. Uno dei prezzi che paghiamo per il fatto di aver trasformato l’istruzione superiore in una macchina selezionatrice funzionale a una società meritocratica orientata al mercato è quello di aver trasformato la giovinezza, l’adolescenza dei nostri figli, in una stagione di ansia, disseminata di stress, in un periodo pressante di attesa, attesa di studio, di preparazione agli esami che induce tra i giovani due cose. In primo luogo, la sensazione che il loro sforzo, poiché a questi giovani chiediamo di impegnarsi duramente, deciderà il loro destino. E quindi, non c’è da stupirsi che anche chi vince l’ammissione non può fare a meno di credere di essere lì grazie al proprio fare, al proprio impegno. Ma quando i giovani finalmente emergono, arrivano feriti, in qualche modo sono dei vincitori feriti. Abbiamo parlato dell’ingiustizia che colpisce chi perde in una meritocrazia orientata al mercato. Ma anche chi vince resta colpito indelebilmente dall’intensa pressione a cui è stato sottoposto. La studentessa di Padova rifletteva su questo. L’incidenza del suicidio e dei problemi di salute mentale, dell’ansia e della depressione tra i giovani nella loro adolescenza e nei primi 20 anni è una delle grandi tragedie che dovrebbe spingerci a riconsiderare il fatto di aver trasformato l’istruzione in una macchina che produce e dissemina ansia e stress. Una delle affermazioni dello studente che mi ha colpito è stata questa: “Ricordiamoci che non è la media dei nostri voti a definire chi siamo”. Questo mi ricorda un aneddoto personale che risale ai miei tempi di scuola.

È una storia che racconto in The Tyranny of Merit, quando avevo, non so, 13 o 14 anni in una classe di matematica; era una scuola pubblica ma molto, molto competitiva, e dopo ogni test e ogni quiz, l’insegnante in classe riassegnava i posti dove ci saremmo seduti in classe, perché le prime tre file di posti erano designate come le cosiddette “file d’onore”, dove gli studenti erano seduti nell’ordine corrispondente alla media dei voti ottenuti in quel dato momento. Quindi, ogni volta che facevamo un quiz, ogni settimana, credo, la tabella dei posti a sedere veniva riorganizzata a seconda di come era variata la media dei voti degli studenti, anche di un decimo di punto percentuale in base ai risultati di ogni quiz. Beh, inutile dirlo, il risultato è stato che noi tutti eravamo molto preoccupati per la nostra media dei voti in quella classe. La media dei voti arrivava, come diceva lo studente padovano, a definire chi eravamo. Eravamo anche molto interessati alla media dei voti dei nostri compagni di classe perché anche quello avrebbe deciso in quale sedia prendere posto nella classe di matematica. Ciò non ha creato un’atmosfera favorevole all’apprendimento fine a sè stesso, come puoi immaginare.

Un paio d’anni dopo, al mio primo anno di liceo, frequentavo un corso di biologia. Era un’aula meravigliosa. La stanza era piena, l’insegnante aveva riempito l’aula con ogni sorta di affascinante esemplare di fauna selvatica: serpenti, roditori, salamandre, lucertole e pesci tropicali di ogni tipo. Eppure, tutti erano preoccupati per la loro media dei voti. Ma il professore di biologia non era affatto convinto che questa condizione creasse un clima favorevole per l’apprendimento. Così un giorno, il professore, l’insegnante di biologia, disse a tutti di prendere un pezzo di carta e di numerarlo da uno a quindici. Ci sarebbe stato un quiz, un quiz a sorpresa, e ciascuno di noi avrebbe dovuto rispondere vero o falso per ognuna delle affermazioni numerate fino a quindici. Gli studenti si lamentarono. Dissero al professore: “ma come? non ci ha dato, non ci ha indicato le affermazioni che dovremmo valutare come vere o false. Dove sono le domande?’ E l’insegnante rispose: “beh, pensate a un’affermazione per ciascun numero e poi scrivete se è vera o falsa”. E gli studenti chiesero, mostrando un’ansia crescente, “va bene prof., questo sarà valutato e conterà?”. E lui rispose, “certo, naturalmente”.

Io all’epoca pensai che si trattasse di uno scherzo di classe divertente, anche se eccentrico, che questo simpatico professore aveva voluto escogitare. Ma ripensandoci, mi rendo conto che il mio professore di biologia, a suo modo, stava respingendo la tirannia del merito, cercando di farci fare un passo indietro, per rifiutare l’idea di ridurre la nostra considerazione individuale, come diceva lo studente di Padova, a quella espressa dalla media dei nostri voti. Stava cercando di farci fare un passo indietro da quelle pressioni e quelle metriche, un passo abbastanza lungo da permetterci di esprimere meraviglia per quelle salamandre.


Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara riscoprendo e tematizzando la differenza tra insegnanti buoni, impegnati e fannulloni, non fa che riprendere maldestramente il risultato di eccellenza previsto (e poi conservato nel doppio fondo culturale di destra e sinistra) dalla legge 1/2007 art. 2, approvata dal Governo Prodi. La sottosegretaria all’istruzione Valentina Aprea (eletta nelle fila di Forza Italia e in carica durante il governo Berlusoni II, tra il 2001 e il 2006) in un disegno di legge sul nuovo ordinamento scolastico e sullo stato giuridico della docenza (decreto legge 953/2008), se ne fece promotrice ed è tornata a parlarne oggi in un clima assai più congeniale, sostenuto proprio dall’autonomia differenzia con i salari regionali e dalla nostalgia per le gabbie salariali. Come ricordava giorni fa il quotidiano Avvenire non è un mistero che l’associazione delle scuole cattoliche e paritarie Fidae lodi l’avvio del percorso autonomistico come possibilità di saldare, grazie proprio alle forme pattizie, ogni differenza fra servizio educativo pubblico e privato rispetto a reclutamento, ai salari, ai finanziamenti, all’elargizione di bonus scolastici alle famiglie.

Se l’insegnante, dalla scuola primaria in poi, deve essere organico al mandato autonomista della scuola e del territorio in cui essa opera, la sua formazione si fa tema delicato: riguarda sia l’accesso, dunque il percorso universitario e la struttura dei bandi di concorso, sia i percorsi di aggiornamento in costanza di carriera di cui un esempio lo offrono da anni le Regioni a statuto speciale del Nord. La pressione sulla libertà d’insegnamento costituzionalmente protetta si può meglio esercitare se le scuole rientrano nella competenza della Regione.

Lo si vede già, sempre capofila il Nord-Est, nella proposta assai vincolante della programmazione per Unità didattiche di apprendimento (Uda) vigente negli istituti tecnici e professionali, i più compromessi con l’attività pattizia con le aziende presenti nei territori. Un’Uda è un percorso stretto che, basato sulle le otto competenze europee (Raccomandazione Ue, 22/05/2018), fissa obiettivi, strategie, verifica e valutazione in rapporto alle qualifiche professionali, sotto il dettato mercantile del mondo del lavoro. Competenza come saper fare, nell’ottica di una distorta realizzazione personale -prestazionale- di cui sono parte integrante la messa a frutto delle capacità emotivo-relazionali, le soft e le character skill, tratti non cognitivi ritenuti funzionali all’innalzamento della produttività lavorativa del capitale umano, la cui deriva viene segnalata anche dal campo moderato (un commento al disegno di legge in proposito approvato, 11/01/2022, lo si può leggere qui ).

Le competenze, certificate dall’istituto Invalsi, perito unico del sistema nazionale di valutazione dalla primaria alle superiori, sono presupposto ed esito delle prove a test per le discipline considerate apicali, e l’ossatura della programmazione didattica. La necessità del raggiungimento degli obiettivi di competenza mentre retroagisce sulle strategie d’insegnamento, spinge i docenti, le famiglie a considerare inevitabile che tutti gli attori rispondano ai dettami del mercato. Non stupisce che persino nei libri di testo in uso nella scuola primaria compaiano proposte simili, ad esempio sulla competenza imprenditoriale o su quella digitale con l’attualissima apertura verso la conoscenza precoce del mercato finanziario (non certo per imparare a difendersene). Così come appare perfettamente coerente con la stretta utilitaristica sulla scuola l’introduzione in tutti gli ordini di scuola dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), forme di alternanza fra scuola e lavoro che molta gola fanno al mondo imprenditoriale soprattutto nel laborioso Nord del Paese.

C’è da sospettare che la definizione dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) nazionali, così difficile per la materia istruzione fra spesa storica e lettura dei fabbisogni locali (che come per la sanità fa i conti con la feroce riduzione dei finanziamenti degli ultimi trent’anni), si nutrirà di Uda e Pcto, con il relativo tentativo di definizione prestazionale degli attori coinvolti e dello standard minimo per le strutture di funzionamento (quote di personale docente, amministrativo, dimensione degli istituti, edifici, fondi per il diritto allo studio, e simili)

Il testo di legge approvato il 3 febbraio scorso è già gravato, per ogni materia di intesa, dalle ombre che ho sommariamente delineato per la sola istruzione. Si prevede un percorso lungo, ma l’attacco perpetrato alla Costituzione con la modifica del Titolo V (Legge Costituzionale n 3/2001) in combinato con il ridimensionamento numerico e funzionale del Parlamento ridotto al fantasma di sé stesso, una pessima legge elettorale, lo ha già oscuramente segnato. Intervenendo in un recente convegno a Roma, il giurista Gaetano Azzariti dava conto di tali segni. Malgrado molte sentenze della Corte Costituzionale abbiano ribadito che gli articoli della Carta vanno letti in combinato disposto, sia fra loro (il 116 e il 117 con le riserve esclusive per lo Stato), sia con i Principi sanciti nei primi dodici articoli, la legge Calderoli ne fa uno spezzatino. Si stabilizza il metodo di approvazione delle norme attraverso la forma decretizia passata da emergenziale a ordinaria e si frantuma il sistema fiscale nazionale massacrando ogni forma di solidarietà sociale. I bisogni, i desideri che rendono la vita vivibile, vengono tradotti nei burocratici fabbisogni minimi. Ma l’acqua, la scuola, gli ospedali sono l’infrastruttura della buona vita, la stessa possibilità di garantire la riproduzione sociale, all’incrocio fra le strutture che consentono l’accesso ai diritti e questi come avamposti culturali, politici.

Mentre scrivo, studenti, cittadini, sindaci del Sud si mobilitano e si diffondono i Comitati di lotta contro l’autonomia differenziata. I dati dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) parlano chiaro: nei piccoli centri del Meridione manca tutto dalla scuola alle mense, dagli spazi sportivi e ricreativi ai nidi, dalle scuole d’infanzia al tempo pieno in quelle elementari e medie. Nei primi dieci anni di vita un bambino del Nord ha avuto modo di frequentare una scuola per circa 1.300 ore, uno del Sud ne ha in media 200 in meno. I territori più fragili del Paese diventeranno inabitabili, si chiuderà ogni ipotesi di dare corso alla pari dignità dei cittadini, al loro pieno sviluppo come persone nella garanzia offerta dal tessuto di una Repubblica unica e indivisibile.

Virginia Magnaghi (Scuola Normale Superiore di Pisa): «Essere contro il merito significa essere contro l’inasprimento delle disuguaglianze»
Quarto Convegno Roars, Trento 24-24 febbraio 2023
Tavola rotonda: COSA «MERITANO» LA SCUOLA E L’UNIVERSITÀ ITALIANA


Buongiorno a tutte e a tutti. Vi ringrazio per questa occasione, per questo invito, per questo spazio. Vi ringrazio soprattutto per quello che avete fatto in questi dieci anni, per il tempo che avete dedicato a Roars e l’impegno che ci avete messo. Chi, come me, ha conosciuto l’università negli ultimi 10 anni, su di voi si è appoggiato e ha trovato un bacino di pensiero critico e di dati fondamentale. Probabilmente la ragione per cui oggi sono qui con voi è un discorso pisano di un anno e mezzo fa che ha avuto una certa eco-mediatica; ecco quel discorso poggiava molto sul lavoro che voi avete fatto, e per questo vi ringrazio.

Quindi, forse, una prima risposta alla domanda al centro di questa tavola rotonda – che cosa meritano l’università e la scuola oggi? – è che si meritano più Roars: nella misura in cui si meritano più impegno, si meritano più volontà di guardarsi, di studiarsi, di analizzarsi criticamente, di impegnarsi civilmente, senza accettare il sistema in cui siamo ma provando a rinegoziarlo; senza accettare il ricatto della produttività, senza accettare di rifugiarsi nella disciplina, ma decidendo di dedicare parte del proprio tempo al mettersi in discussione. Abbiamo bisogno, per esempio, di più personale stabilizzato che provi a interrogarsi sulla precarietà: non possiamo lasciare che della precarietà si occupino i precari.

Quel discorso pisano era un discorso che veniva da un’oasi di eccellenza. A me preme sottolineare che non era un discorso, per usare due parole che sono state usate ieri, di “wounded winners” (di vincitori feriti). Chiaramente, questa è un’espressione che può nascere in un sistema come quello statunitense. A noi interessava interrogarci sulle contraddizioni che avvertivamo. La prospettiva era che la meritocrazia è una trappola: certo non per i wounded winners, ma per i supposti losers o, soprattutto, per quelli che neanche possono permettersi di competere, di entrare in questa competizione. Un’analisi della meritocrazia non può esistere senza una più generale contestualizzazione delle politiche universitarie, come abbiamo detto in questo paio di giorni: se si vuole discutere in maniera franca la meritocrazia, allora i due aspetti non si possono scindere.

Probabilmente, però, quel discorso fece anche rumore perché veniva “da dentro”: l’eccellenza la criticava dall’interno. Da allora, le voci degli studenti – come è chiaro anche da chi oggi ha parlato prima di me – si stanno molto interrogando su questo tema, intercettando anche delle esigenze che non riguardano solo l’università, ma che guardano oltre le aule: lo dimostra anche l’ultimo discorso di Emma Ruzzon a Padova (e tutto questo succede anche in altri atenei). Ci si interroga, cioè, su che cosa sia l’eccellenza nel contesto di un drastico taglio dei finanziamenti e di un uso discutibile dei finanziamenti che ci sono – come abbiamo detto stamattina.

Io credo che allora un’altra cosa che ci meritiamo e che si meritano l’università e la scuola sia una discussione più franca sulle condizioni oggettive. Come ha mostrato anche chi ha parlato prima di me, è oggi sempre più difficile garantire le basi del diritto allo studio. Studenti che avrebbero diritto a una borsa non ce l’hanno o la vedono arrivare con enormi ritardi; non ci sono i posti alloggio sufficienti; la dispersione scolastica è altissima e il numero di laureati è basso. Cioè, sempre per parlare di numeri che sono stati citati ieri, il problema, chiaramente, non è che ci sono 900 studenti al corso di economia, ma che ci sono tre docenti: il numero, il rapporto tra docenti e studenti, non funziona. E soprattutto non funziona in questo contesto. Non si può parlare di meritocrazia dimenticando questi dati di partenza.

Io credo che una discussione più franca sul merito debba partire da una considerazione molto semplice: essere contro il merito oggi significa, semplicemente, essere contro l’inasprimento delle disuguaglianze. Il sistema di oggi sembra dirci che l’eccellenza, la meritocrazia, siano gli unici parametri a far funzionare e prosperare la società: e questo non perché il “sistema dell’eccellenza” sia l’unico che funziona davvero di per sé, ma perché è l’unico a essere finanziato. A questo proposito, vorrei condividere una serie di dati da cui partire, e che riguardano forse l’incarnazione dell’eccellenza nel sistema universitario di oggi – cioè il sistema delle scuole di eccellenza, il sistema delle scuole di merito.

Il primo dato evidente è la proliferazione di queste scuole in Italia: oggi ce ne sono 53, il che significa che ci sono 53 residenze che in qualche misura garantiscono alloggio e, in diversa misura, tasse universitarie e vitto per 4.000 studenti meritevoli. Stiamo parlando di 4000 studenti all’anno a partire dal 2012, anno in cui il primo decreto legislativo è intervenuto sulla normativa di principi in materia di diritto allo studio normando l’esistenza delle scuole di merito. Da allora, sono state accreditate tutte queste strutture e ogni università ha mirato a crearsi il proprio polo meritevole, il proprio polo “per pochi”.

I dati, che peraltro sono presentati dalla Conferenza dei Collegi di Merito (quindi dall’interno: non sono dati di una società esterna) confermano in realtà che l’eccellenza non fa che acuire le disuguaglianze. Ve ne dico qualcuno: due terzi dei collegi sono al Nord, un terzo tra Centro e Sud. All’interno di queste scuole, quindi tra questi 4000 studenti, il 57,5% sono maschi, quando nel contesto universitario italiano sappiamo bene che sono molte di più le donne (i maschi sono solo il 40% di tutti gli studenti universitari).

Il dato che a me colpisce di più, che trovo più interessante, è che cumulativamente, nel decennio tra il 2009 e il 2019 – questi sono dati pubblici si trovano online, sono stati studiati da questa società di consulenza che si chiama “The European House” – i collegi di merito hanno investito per interventi strutturali, tecnologie, residenze e alloggi 43 milioni di euro. Nello stesso decennio, 43 milioni di euro sono il 60% di quanto il Ministero ha investito su infrastrutture e tecnologie per tutto il sistema. Quando parliamo di scuole di merito, stiamo parlando di 4000 studenti di fronte a un sistema da un milione e 800 mila iscritti. Quindi, un sistema che si occupa dello 0,22% di tutti gli studenti italiani ha finanziato le strutture di questi studenti con una cifra pari al 60% di quanto è stato speso per tutti. Nel contesto da cui siamo partiti, dunque nel contesto di quelle condizioni oggettive di cui dicevamo, puntare sull’eccellenza significa far prosperare un modello di questo genere. E far prosperare questo modello vuol dire, inevitabilmente, volere che le disuguaglianze si inaspriscano.

Davanti a questi numeri, l’eccellenza si palesa come strumento regressivo e come strumento conservatore che, al contempo, è prodotto e giustificazione della drastica riduzione dei finanziamenti da un lato e dell’accentramento dei finanziamenti dall’altro. È chiaro, allora, che non ci si deve stupire se sei giorni fa «Repubblica» raccontava che l’Università del Sud entro il 2040 potrebbe chiudere, minacciata dal calo demografico e dall’emigrazione interna; al tempo stesso, non dovrebbe stupire che quello stesso articolo, come soluzione al problema, prospettasse l’apertura di poli di eccellenza al sud.

Vorrei concludere semplicemente cercando di dire che, secondo me, ragionare sull’eccellenza porta a guardare in due direzioni. Da un lato porta a guardare fuori: non bisogna guardare alla retorica dell’eccellenza solo fermandosi alle scuole di eccellenza e nemmeno fermandosi sulle soglie dell’università tutta; bisogna invece uscire dall’università. Le dinamiche di standardizzazione e razionalizzazione tramite mercato delle persone non investono solamente l’università: investono la scuola, come abbiamo visto ieri, ma per esempio anche la sanità. Da un lato, dunque, una riflessione sull’eccellenza spinge a interrogarsi sull’eccellenza come dinamica trasversale. Dall’altro, forse, spinge anche a riguardarsi dentro con uno sguardo diverso. Per esempio, spinge a intercettare il fatto che, alla luce della stessa standardizzazione e alla luce della stessa razionalizzazione, ci sono altre dinamiche su cui l’università poggia e che tende a nascondere; per esempio, si costruisce sulla precarietà delle persone e sulla flessibilità del lavoro.

Queste dinamiche, sempre più radicate, sono inserite in un sistema in cui, fondamentalmente, tutto è un servizio, e in cui l’insegnamento è solo il primo di una ben più lunga serie di servizi. Forse, è il servizio più “alto”, perché è il servizio erogato dai professori e dai docenti, ed è quello culturalmente elevato; in gioco, però, ci sono tanti altri servizi, che inevitabilmente finiscono per diventare di serie b, e che sono servizi nel tempo resi sempre più precari, flessibili, “razionali” e addirittura invisibili. E sono servizi, questi ultimi, che avvengono nelle aule delle nostre università, le stesse in cui assistiamo ai corsi: sono i servizi di pulizia, di portierato, di facchinaggio, di mensa. Quando parliamo di diritto allo studio – quando parliamo di mensa, residenze, aule pulite –  bisogna che parliamo anche di questi servizi, che finiscono per essere i servizi di serie b, altrettanto anzi più precarizzati, in un’università in cui l’insegnamento è ormai diventato solo un altro servizio, per ora ancora di serie a.

Queste dinamiche di cui parliamo sono trasversali: le retoriche dell’eccellenza e del merito agiscono anche qui su più livelli, e forse la sfida politica si gioca sul tenere o provare in qualche modo a tenerli tutti insieme, senza parlare solamente di insegnamento, solamente di università.

Vi ringrazio ancora per questo incontro.


C’è qualcosa di assai peggiore dello stipendio (oggettivamente) basso: la perdita di senso. La torsione aziendalistica, la struttura sempre più dirigistica, il proliferare di incomprensibili sigle (RAV, PTOF, PDM, UDA..) che celano la spersonalizzazione e la standardizzazione della funzione docente. È per questo, ben più che per le questioni monetarie, che induce ora alla rivolta – vedi recente sciopero unitario del 30 Maggio scorso – l’annuncio della creazione di un’ulteriore e costosissima Spectre dal nome altisonante (“Scuola di Alta Formazione dell’istruzione”), pronta a irradiare le proprie occhiute vigilanze in tutte le scuole imponendo de facto corsi di formazione che affrontano i contenitori e non i contenuti (progettazione, mentoring, flipped classroom etc.): ulteriore colonizzazione a gratis del tempo degli insegnanti, sottratto all’aggiornamento vero, alla lettura, allo scambio con i colleghi e con l’Università che ormai è sempre più un mondo distante e avulso; ulteriore produzione di carta inutile e di attestati validi quanto le onorificenze del Basso Impero. (leggi)


La nuova riforma del reclutamento e formazione della scuola è un italian squid game in cui i docenti, l’uno contro l’altro armati, si contendono briciole premiali, a danno della qualità della loro vita e quindi della didattica. Saltando a piè pari la contrattazione sugli aumenti stipendiali ancora in essere fra governo e sindacati, il decreto Bianchi-Draghi stabilisce un investimento alternativo di risorse, che andranno a meno della metà dei facenti domanda (40%) e agli emolumenti più o meno dorati di tutti coloro (esperti, docenti universitari, amministrativi e dirigenti) che animeranno la nuova scuola di Alta formazione, in cui siederanno i presidenti di INVALSI e INDIRE: questo sì un incontrollato carrozzone! Bianchi e Draghi non sono impazziti, perseguono le più radicali analisi neo-liberiste e teorie aziendaliste che finiscono per diventare l’alibi ideologico per non investire sulla scuola e sull’intero corpo docente. (Leggi)

Le decisioni del governo Draghi in materia di reclutamento e formazione insegnanti diventano decreto legge, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 1 Maggio 2022. Tra le “ulteriori misure urgenti per l’attuazione del PNRR” troviamo quanto già previsto dal consiglio dei ministri a fine aprile: nuovo percorso per diventare docenti, formazione “a premi” fuori dall’orario di servizio: obbligatoria per i neo-immessi, volontaria per gli altri – retribuita solo al 40% dei partecipanti, i più “adeguati”. Largo alle competizioni. Ancora: Scuola di Alta Formazione, con Presidenti INVALSI e INDIRE, sistema di valutazione e controllo-qualità permanente (in capo al dirigente e ad un comitato di valutazione), sulla base di indicatori di performance (aziendali, pardon) centrali. A quest’impianto, il decreto appena pubblicato aggiunge un nuovo dettaglio: la formazione meritocratica sarà finanziata con i tagli di organico (circa 10.000 unità fino al 2031). Neanche la Fondazione Agnelli si era spinta così avanti, suggerendo di usare le risorse risparmiate a causa del calo demografico per migliorare la qualità dell’offerta formativa con un maggior numero di insegnanti per alunno/classe. Quello di Draghi, invece, è un vero e proprio furto con destrezza, ai danni proprio di quella categoria e di quell’istituzione che in piena crisi pandemica dichiarava di voler sostenere. (Leggi)

Un nuovo regolamento del Vaticano diretto alle scuole cattoliche raccomanda comportamenti discriminatori che in Italia violano la Costituzione. Il Vaticano infatti ha emanato una nuova direttiva per le scuole cattoliche che prevede il licenziamento per i docenti e il personale degli istituti che non vivono secondo i dettami della Chiesa cattolica (ne ha scritto sul Corriere Orsola Riva). Significa che, secondo le linee di condotta emanate dalla Chiesa, se una docente di una scuola paritaria rimane incinta fuori dal matrimonio «dovrebbe» essere sanzionata con la perdita del lavoro. Lo stesso «dovrebbe» succedere in base al nuovo regolamento ai docenti che divorziano, che convivono fuori dal matrimonio, a quelli hanno relazioni con persone dello stesso sesso e che stringono un’unione civile. Oppure in caso di interruzioni volontarie di gravidanza. L’istruzione della Congregazione per l’Educazione cattolica intitolata «L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo» (qui il testo su Vatican.va) prevede testualmente che se i dipendenti delle scuole cattoliche non si adeguano ai «valori e comportamenti» del cattolicesimo, «essi possono essere sanzionati come espressione di una mancanza di onestà professionale», fino al «licenziamento» come «ultima opzione, che va legittimamente presa dopo il fallimento di tutti gli altri tentativi di risoluzione».

In Italia però queste «sanzioni» sono vietate dalla Costituzione perché rappresentano una discriminazione sulla base delle caratteristiche personali. Lo ha ribadito una recente sentenza della Cassazione, che nel novembre 2021 ha condannato una scuola paritaria di Trento che non aveva rinnovato il contratto a una professoressa in base al «sospetto» che fosse lesbica. All’epoca la madre superiora che dirigeva la scuola aveva detto alla 27esima Ora del Corriere di aver scelto di bloccare il contratto per «tutelare l’ambiente scolastico». «Il problema esiste; la scuola cattolica ha una sua caratteristica e un insieme di aspetti educativi e orientativi: a noi sembra di doverli difendere a tutti i costi», aveva aggiunto, secondo un principio ribadito ora dalla Congregazione per l’Educazione cattolica, l’ente vaticano che indirizza e regola le scuole e università cattoliche. I giudici della Cassazione avevano invece ribadito che, se pure ci sono «disposizioni, anche costituzionali, a fondamento della libertà di organizzazione dell’Istituto religioso», esse non permettono di «legittimare condotte apertamente discriminatorie». Analogamente la Corte Suprema americana nel 2020 ha sancito il divieto di licenziare qualcuno per il suo orientamento sessuale o la sua identità di genere.

La nuova istruzione della Congregazione per l’Educazione cattolica arriva dopo queste due sentenze e dopo che il coming out di massa dei dipendenti della Chiesa cattolica tedesca, docenti e personale della scuola compresi, ha risollevato il problema. In Germania la legge, a differenza di quanto succede in Italia, in Francia o negli Stati Uniti, dà a tutte le Chiese l’autonomia di stabilire le loro regole interne. Tra queste c’è la clausola di lealtà della Chiesa cattolica che obbliga i suoi dipendenti a vivere e comportarsi secondo la sua dottrina. Quando però a gennaio centinaia di lavoratori delle scuole e delle organizzazioni cattoliche tedesche hanno fatto coming out, la Conferenza episcopale tedesca ha fatto sapere che per loro non ci sarebbero state conseguenze. Il documento della Congregazione per l’Educazione cattolica è anche un richiamo alla Chiesa tedesca, considerata troppo aperta e liberale da una parte del mondo cattolico. La nuova istruzione però non riguarda solo le persone lgbt+, ma anche ad esempio le madri o i padri single, i separati o i divorziati.

La Congregazione per l’Educazione cattolica fa esplicitamente riferimento agli Stati che, come l’Italia e l’intera Unione europea, vietano la discriminazione sul lavoro sulla base di determinate caratteristiche personali. «Le scuole cattoliche devono essere munite di una dichiarazione della propria missione oppure di un codice di comportamento. Questi sono strumenti per la garanzia della qualità istituzionale e professionale. Occorre quindi rafforzarli giuridicamente tramite contratti di lavoro o altre dichiarazioni contrattuali dei soggetti coinvolti con chiaro valore legale. Si prende atto che in tanti Paesi la legge civile esclude una “discriminazione” a causa della religione, dell’orientamento sessuale nonché di altri aspetti della vita privata. Nello stesso tempo, viene riconosciuta alle istituzioni educative la possibilità di munirsi di un profilo di valori e di un codice di comportamenti da rispettare. Nel momento in cui tali valori e comportamenti non siano rispettati dai soggetti interessati, essi possono essere sanzionati come espressione di una mancanza di onestà professionale nel non adempimento delle clausole definite negli appositi contratti e nelle linee-guida istituzionali» si legge nel documento.

Un passaggio in particolare sembra far riferimento alla sentenza italiana e a quella degli Stati Uniti: «I problemi giuridici e di competenza delle istituzioni educative cattoliche nascono anche a causa del doppio inquadramento normativo: canonico e statale-civile. Dalla diversità di scopi delle relative legislazioni, può accadere che lo Stato imponga alle istituzioni cattoliche, che operano nella sfera pubblica, comportamenti non consoni che mettano in dubbio la credibilità dottrinale e disciplinare della Chiesa. Qualche volta anche l’opinione pubblica rende quasi impossibili le soluzioni in linea con i principi della morale cattolica».

Il documento quindi indica strumenti alternativi per sanzionare i lavoratori che non vivono secondo i dettami della Chiesa. «Al di là delle norme esclusivamente giuridiche, si mostrano spesso efficaci altri strumenti più adatti alla promozione della responsabilità di ciascuno a favore della identità dell’istituzione — scrive la Congregazione per l’educazione cattolica —. Per esempio, le procedure di autovalutazione individuale e collettiva all’interno dell’istituzione, gli accordi orientativi sui livelli di qualità desiderati, i programmi di formazione permanente e di promozione e rafforzamento della professionalità, gli incentivi e i premi nonché la raccolta, la documentazione e lo studio di buone prassi». Ma secondo la legge italiana anche le altre forme di sanzione sono vietate. «Anche la mancate promozioni, se sono dovute a una caratteristica personale protetta dei lavoratori, sono illegittime» spiega Anna Lorenzetti, professoressa di Diritto costituzionale dell’Università di Bergamo ed esperto di diritto antidiscriminatorio. (Fonte: Corriere della Sera)

di ELENA TEBANO

Poco tempo fa avevamo commentato la relazione della Corte dei Conti relativa al controllo sulla gestione finanziaria dell’INVALSI, un documento importante, che avrebbe meritato maggiore eco e sicuramente conseguenti modifiche di indirizzo politico. La Corte metteva in evidenza numerosi problemi: conflitti di interesse delle alte cariche dell’istituto, anomalie nel reclutamento, ricorso a contratti atipici, esternalizzazioni e consulenze di esperti profumatamente pagati, costi enormi della macchina dei test, oltre 9 milioni di euro all’anno. Nel dicembre scorso la Corte dei Conti ha concluso la sua attività di controllo sulla gestione finanziaria dell’INDIRE (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa) ente che insieme all’INVALSI fa parte del nostro Sistema Nazionale di Valutazione. Anche stavolta la relazione dei giudici contabili merita una lettura, perché evidenzia aspetti molto singolari: dall’incarico di direttore generale particolarmente longevo, in violazione allo statuto, all’eccesso di spesa per indennità, trasferte e consulenze, fino alla mancanza di un “sistema volto verificare gli standards di qualità dei servizi erogati”. Dall’Ente pubblico che dovrebbe concorrere al “miglioramento della qualità” del nostro sistema scolastico, questo non ce lo saremmo mai aspettato. (leggi)

In relazione all’articolo Dopo l’INVALSI, la Corte dei Conti bacchetta anche l’INDIRE riceviamo e volentieri pubblichiamo la replica del Presidente di INDIRE, Giovanni Biondi. (leggi)