La tirannia del merito (di Michael Sandel)

Questo modo di pensare al successo nasce da un principio apparentemente attraente: il principio meritocratico, il principio che dice che, nella misura in cui le possibilità di partenza sono uguali, i vincitori meritano la loro vincita. Ora sappiamo che è un dato di fatto che le possibilità non sono veramente uguali nelle nostre società, e quindi siamo tentati di pensare che la soluzione alla disuguaglianza e al divario tra vincitori e vinti sia semplicemente quella di rendere le nostre società ancor più meritocratiche, di fare ancora meglio per renderci all’altezza dei principi meritocratici che professiamo. Ed è certamente importante cercare di porre rimedio alle disuguaglianze di opportunità che persistono nelle nostre società, ma non basta. Non basta semplicemente creare una meritocrazia più perfetta, e il motivo è che l’ideale meritocratico in quanto tale ad essere sbagliato.

Ora hai menzionato, Umberto, tre motivi per i quali sostengo che il merito si riveli un principio che reca con sé un frutto avvelenato. Prendiamo una persona di grande successo, qualcuno che guadagna molti soldi, il grande calciatore Lionel Messi, per esempio. Ora, ammiriamo Messi, ma sappiamo che in larga misura egli è il campione che conosciamo grazie a doni e talenti innati, grandi doni atletici che, nonostante tutta la sua dura pratica e impegno, non sono propriamente tutta opera sua. Sono la sua benedizione. È fortunato ad averli. Secondo, il fatto che a Messi capiti di vivere in una società e in un momento storico che premia e retribuisce così tanto i talenti che a Messi capita di avere come grande calciatore, anche quello non è propriamente opera sua, anche quella è una sua fortuna. Se Messi fosse vissuto ai tempi del Rinascimento, egli avrebbe scoperto che a quel tempo la gente non aveva nessun interesse per il calcio. Si tenevano in gran conto i maestri nell’arte degli affreschi. Quindi c’è un secondo aspetto – temporale – della fortuna, come hai fatto notare. E infine, c’è la caratteristica della hubris, o arroganza. Una meritocrazia, anche una meritocrazia perfettamente realizzata, invita e incoraggia l’uomo di successo ad inebriarsi troppo profondamente del profumo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e la buona sorte che lo hanno aiutato nel compiersi del suo cammino. Quindi una meritocrazia, anche una meritocrazia pienamente realizzata, produce arroganza nei vincitori e umiliazione tra coloro che sono rimasti indietro.

Queste sono le tre obiezioni di principio della meritocrazia. Ora fai una domanda molto importante: qual è il rapporto tra meritocrazia e, dici tu, proprietà privata? Direi una sorta di fede trionfalista del mercato che ha predominato negli ultimi decenni di globalizzazione neoliberista. Penso che ci sia una connessione tra meritocrazia e proprietà privata, una connessione tra meritocrazia e l’ideologia del mercato che è arrivata a dominare negli ultimi decenni.

L’arroganza che produce, il divario che crea tra vincitori e vinti: penso che ci sia una connessione tra questi elementi e la versione della globalizzazione neoliberale guidata dalla finanza, ispirata al fondamentalismo del mercato, che abbiamo visto trionfare negli ultimi decenni. E il nesso è questo: Max Weber, il più grande sociologo tedesco, in realtà lo diceva bene un secolo fa, quando osservava che chi ha successo vuole più del successo, vuole credere di meritare il proprio successo e di meritarselo in relazione a quelli che hanno avuto meno successo. Questa intuizione di Max Weber 100 anni fa, credo, ci aiuta a cogliere la connessione tra la disuguaglianza causata dalla globalizzazione neoliberista negli ultimi quattro decenni e gli atteggiamenti arroganti coltivati da quanti hanno successo, in una connessione si è fatta sempre più forte e stringente nel tempo. Nella tua domanda, hai ricordato le origini del pensiero meritocratico nel dibattito sulla salvezza nella storia del pensiero cristiano, un dibattito nel quale ci si chiedeva se la salvezza fosse guadagnata dall’uomo (e questa era la posizione meritocratica) o se la salvezza fosse un dono, un atto della grazia di Dio.

La tensione tra merito e dono, tra ciò che si guadagna e ciò che si riceve per una sorta di Grazia, in termini secolari oggi blocca questa dialettica, questa tensione risalente a molto tempo fa. È quello di cui siamo testimoni oggi. Oggi nelle nostre società secolarizzate non siamo più propensi a chiederci se la salvezza è una questione di merito individuale, ma viviamo guidati da una potente retorica politica che ci ripete che il successo materiale è una questione di merito, più di quanto non sia una questione di fortuna e di possibilità, una specie di regalo della sorte. La globalizzazione neoliberista è arrivata ad ampliare le disuguaglianze di reddito e ricchezza, ma anche – ed è qui che la meritocrazia si rivela la compagna morale della globalizzazione neoliberista – la meritocrazia finisce per offrire un conforto morale a quanti hanno avuto successo, dicendo loro che non solo sono in cima, ma che meritano di esserlo. È questo atteggiamento, combinato con le disuguaglianze, credo, ad aver alimentato gran parte della rabbia, della frustrazione, del risentimento e del senso di rivincita che vediamo oggi serpeggiare politicamente nelle società di tutto il mondo. Sono questi i fattori che hanno alimentato quella sorta di contraccolpo che abbiamo sperimentato negli Stati Uniti nel 2016 [con la vittoria di Donald Trump, n.d.t.]. E finché non affronteremo questo divario sempre più profondo, che non riguarda solo il reddito e la ricchezza, ma anche la dignità, il riconoscimento sociale e la stima, finché non affronteremo questo problema, penso che la democrazia e i legami morali che ci tengono uniti in quanto cittadini democratici continueranno ad essere fragili e ad essere pronti a dissolversi.

UMBERTO IZZO. Grazie, Michael. Una seconda domanda riguarda la retorica dell’ascesa, che è un ritornello familiare della meritocrazia, e tu la descrivi come la promessa che tutti dovrebbero essere in grado di elevarsi fin dove la loro forza e il loro talento li possono portare. Meraviglioso. Questa promessa è stata insistentemente tradotta, almeno negli Stati Uniti, nell’idea che la mobilità individuale verso l’alto potesse essere promossa attraverso l’istruzione superiore. Viviamo in un mondo di disparità di ricchezza, ma qualsiasi individuo, comunque, grazie all’istruzione superiore, può prendere parte a questa corsa verso l’alto, una corsa che inevitabilmente creerà vincitori e vinti.

Come probabilmente saprai, in Italia la percentuale di popolazione in possesso di un titolo universitario è molto inferiore che negli Stati Uniti. Nel nostro Paese abbiamo vissuto gli anni dell’ascesa della globalizzazione con una retorica politica tesa a sottolineare l’alto tasso di disoccupazione delle persone in possesso di una istruzione universitaria. I governi italiani negli ultimi anni hanno adottato politiche ispirate all’idea che l’istruzione dovrebbe forgiare soprattutto lavoratori specializzati per le esigenze delle piccole e medie imprese italiane, e l’attuale governo sembra intenzionato a proseguire su questa strada. Così, paradossalmente, si impiegano argomentazioni meritocratiche per giustificare questa forma di adattamento delle istituzioni educative al mercato del lavoro. Se così è, fino a che punto l’argomento della retorica dell’ascesa che ho prima descritto può conciliarsi con lo scenario italiano? Più in generale, quale dovrebbe essere secondo te il rapporto socialmente desiderabile che andrebbe instaurato tra la scuola, e non solo quella di élite, e il mercato? Grazie.

MICHAEL SANDEL. Bene, grazie anche per questa domanda, ricca di temi molto interessanti, e vorrei iniziare con la retorica dell’ascesa. La retorica dell’ascesa dice che tutti dovrebbero essere liberi di elevarsi fin dove i loro sforzi e talenti li porteranno, qualunque sia il loro background. Ora, a prima vista, chi potrebbe non essere d’accordo? Chi potrebbe non farsene convincere? Perché rimuovere gli ostacoli al successo è una buona cosa. È una cosa fondamentale per creare le condizioni ideali nelle quali possa darsi una società della fiducia. Il problema con la retorica dell’ascesa, però, è che essa devia l’attenzione e la responsabilità per l’ampliamento della disuguaglianza dalla società dalla comunità politica nel suo insieme all’individuo. Abbiamo sentito questa retorica più e più volte negli ultimi quattro decenni. Ci è stato detto: se vuoi competere e vincere nell’economia globale, vai all’università. Ciò che guadagni dipenderà da ciò che impari. Puoi farcela se ci provi. Quello che le élite, i politici e i partiti politici, il centrosinistra e il centrodestra, non riescono a vedere è che in questo incoraggiante consiglio, in questa promessa di alimentare la mobilità verso l’alto attraverso l’istruzione superiore, si dà un insulto implicito rivolto all’individuo. L’insulto è questo: se non stai prosperando nella new economy e se non sei andato all’università, allora il tuo fallimento è solo colpa tua. Non c’è quindi da stupirsi che moltissimi lavoratori e la maggioranza dei cittadini negli Stati Uniti, così come in Italia, non abbiano una laurea. Quindi è una follia creare un’economia che pone, quale condizione necessaria per svolgere un lavoro dignitoso e vivere una vita dignitosa, un diploma universitario che la maggior parte delle persone nelle nostre società non ha. Ora, tu hai accennato al contesto italiano, nel quale l’istruzione viene sempre più razionalizzata e giustificata per preparare le persone al mercato del lavoro. Questo è uno degli scopi dell’istruzione: preparare le persone a diventare cittadini produttivi nell’economia e nella società in cui stanno per entrare. Ma non è certamente questo l’unico scopo. Lo scopo più alto dell’istruzione è fornire quel tipo di educazione morale e civica che coltiva buoni cittadini e che consente agli studenti di vivere i loro anni – direi soprattutto quelli spesi nell’istruzione superiore, se frequentano l’università – come un momento di crescita e di esplorazione individuale, per capire quali scopi e percorsi sono degni di loro, cosa vale la pena preoccuparsi vivendo nella società e perché. Questo è ciò di cui si occupa l’istruzione nelle c.d. liberal arts. Non è una istruzione solo strumental-funzionale. Essa non serve solo a formare lavoratori e dirigenti per il mercato del lavoro. Serve per coltivare il ragionamento critico e la riflessività morale. Quello che è accaduto nelle nostre società è che abbiamo scelto di rendere l’istruzione, e in particolare l’istruzione superiore, una specie di grande macchina selezionatrice asservita a una società meritocratica guidata dal mercato. Le università sono le istituzioni che dispensano le credenziali e definiscono il merito che una società meritocratica e orientata al mercato premia. Questo sembrerebbe conferire a queste istituzioni un grande prestigio e una centralità nella vita sociale, e per molti versi questo è vero. Ma penso anche che questa dinamica segni una sorta di corruzione dell’istruzione superiore, perché il pericolo è che la nostra funzione di accreditamento metta definitivamente fuori gioco la nostra missione educativa.

Ho parlato fin qui dell’istruzione superiore e di come essa possa corrompersi se la si concepisce, la si difende e la si giustifica in modo ostinato come un modo – il solo modo – per dispensare credenziali e preparare le persone al mercato del lavoro. Ma mi hai chiesto anche di considerare il ruolo delle scuole, primarie e secondarie. Queste due istituzioni hanno una missione civica, non solo economica. Se l’istruzione superiore si pone come scopo coltivare il pensiero critico dei cittadini per farne persone moralmente riflessive, che dire di quanti non frequentano l’istruzione superiore? E che dire della loro educazione civica? Questo ci permette di ritornare a una domanda che hai fatto prima, facendo eco a Romano Prodi, per chiederci: qual è l’alternativa? Parte dell’alternativa è concepire l’educazione morale e civica come qualcosa che può realizzarsi e fiorire non solo all’interno delle università – lì è importante rafforzarla – ma dovrebbe esserci, credo, un’ampia diffusione dell’educazione morale e civica attraverso le istituzioni all’interno della società civile. Nella scuola – primaria e secondaria, certo – ma direi anche in altre istituzioni della società civile: nei sindacati, nei centri sociali, nelle comunità religiose. Quindi l’alternativa, in senso lato, per andare a una delle grandi domande che mi hai posto, Umberto, l’alternativa alla meritocrazia, che cos’è esattamente? Ebbene, i difensori della meritocrazia diranno che l’unica alternativa è un’aristocrazia ereditaria, in cui il posto di una persona nella vita è fissato da un caso che dipende dalla sorte: come e dove si nasce. E, diversamente dal retaggio delle antiche aristocrazie feudali, la meritocrazia oggi si propone in una veste che sembra qualificarla come uno strumento di libertà e uguaglianza. Le persone sono libere di elevarsi, nessuno è consegnato al destino dato dal fato che ne ha governato la nascita in una famiglia o in un’altra: tutto ciò è potentemente liberatorio. Ma, a dispetto di ciò, oggi la meritocrazia di fatto cristalizza in gran parte le condizioni fortuite che dipendono dalla circostanza di esser nati in un certo contesto familiare, soprattutto quando il meccanismo di trasmissione del privilegio e del vantaggio passa attraverso la possibilità di competere per l’accesso all’istruzione superiore.

Oggi, l’alternativa alla meritocrazia non è l’aristocrazia: è la democrazia, un tipo di democrazia che descriverei come quella di una società che riesce a perseguire un’ampia uguaglianza nella condizione e nella partecipazione democratica. L’alternativa che ho in mente non è una sterile società che livella i risultati dei singoli, come veniva preconizzato negli scritti distopici, per esempio, di Kurt Vonnegut, il quale immaginava la storia di un personaggio chiamato Harrison Bergeron, costretto a vivere in una opprimente società del futuro, dove i talenti devono essere soppressi per imporre una sorta di sterile uguaglianza. L’alternativa alla meritocrazia non è livellare le persone, privarle della possibilità di esercitare i propri talenti e i propri doni, ma creare un’ampia uguaglianza democratica di condizioni, nella quale tutti siano riconosciuti e onorati per il contributo che singolarmente danno all’economia e al bene comune, come ci hanno ricordato i tempi della pandemia e il debito contatto dalle società nei confronti di infermieri, commessi, autisti, i quali hanno permesso alla società di continuare a vivere in quel difficile frangente. E ciò richiede, Umberto, un’educazione morale e civica largamente diffusa, perché tutti possano condividere l’apprendimento, ma anche perché tutti possano coltivare la capacità di esercitare la propria voce nella democrazia, svolgendo attività di cui la società riconosca la dignità.

UMBERTO IZZO. Grazie, grazie Michael, per questa risposta molto chiara. Ho una terza domanda – se riusciamo ad usare il tempo che abbiamo – che riguarda la nostra condizione, la nostra condizione di professori e persone che lavorano nell’università e nella scuola. Nell’indice analitico della Tirannia non vi è un riferimento esplicito alla voce “metrica”. Un elemento chiave per applicare l’idea di meritocrazia agli individui e alle istituzioni educative è che una società meritocratica deve necessariamente dotarsi di strumenti per misurare il merito. Del resto, nel tuo libro hai anche fatto molti riferimenti ai test standardizzati per l’ammissione all’università negli Stati Uniti. Quando, come è successo in Italia, un intero sistema pubblico di istruzione, dalla scuola all’università fino ai dottorati ultimamente, viene politicamente riconfigurato, inneggiando alla retorica del merito, l’idea di meritocrazia non è solo viene elevata a paradigma cui ispirare l’ammissione degli studenti e l’avanzamento negli studi nelle istituzioni educative d’élite, ma finisce per avere un impatto anche sulle persone che lavorano e si impegnano in qualsiasi istituzione educativa.

Negli ultimi 20 anni in Europa e in Italia almeno dal 2010 scuole e università hanno ampiamente adottato metriche pervasive per misurare il merito di alunni, studenti e professori, e anche le istituzioni educative stesse, per premiarle nella distribuzione delle risorse pubbliche. Qual è la tua opinione su questa “meritocrazia istituzionale”, dove il merito si compie ricorrendo alle metriche, con tutti i pericoli che ogni sistema metrico può comportare e con tutti gli effetti distorsivi che si nascondono nei dettagli di questi sistemi metrici? Grazie.

MICHAEL SANDEL. Sono molto scettico su queste metriche e penso che la tirannia del merito sia strettamente collegata a una concezione molto ristretta delle metriche che misurano il merito. Nella nostra società contemporanea ci sono essenzialmente due tipi di metriche che insieme esercitano e rafforzano questa tirannia. Uno di questi è il denaro e l’altro sono i punteggi dei test misurati da test standardizzati. Uno dei presupposti profondi, molto difficili da contrastare, della nostra società è che il denaro che le persone guadagnano identifichi (o finisca per raffigurare) la misura del loro contributo al bene comune. Ma questo è un grave errore. Chiunque, ad eccezione forse dei più estremi pensatori libertari, idolatri del laissez-faire del mercato, farebbe fatica a sostenere, ad esempio, che il gestore di un hedge fund o un magnate di un casinò di successo che guadagnano mille volte di più di un insegnante di scuola o di un medico meritino di guadagnare mille volte di più, perché il gestore di hedge fund o il magnate del casinò contribuiscono più di mille volte al valore all’economia di quanto non faccia un insegnante di scuola o un medico. Riflettendo sul valore del contributo sociale, sarebbe molto difficile sostenere questa posizione. E, se questo è vero, allora non può essere vero che il denaro che le persone guadagnano, la metrica sociale della nostra contemporaneità, sia la vera misura del contributo che le persone danno al bene comune e quindi la base della loro meritevolezza, per riportarsi alla meritocrazia.

Quindi, un’implicazione di questo argomento è che se vogliamo iniziare a sfidare la presa che una meritocrazia di mercato esercita sull’allocazione del reddito e della ricchezza, ma anche sull’onore, sul riconoscimento e sulla stima sociale degli individui, dobbiamo riuscire a strappare ai mercati la funzione sociale di tradurre il giudizio morale su quanto abbia valore e sia prezioso in quanto contributo all’economia e al bene comune o sociale. È come se, soprattutto negli ultimi decenni, avessimo esternalizzato, consegnandolo ai mercati, il compito di esprimere il nostro giudizio morale sul valore sociale. Un motivo importante per cui lo si è fatto è la consapevolezza che qualora noi cittadini democratici scegliessimo di discutere per decidere che cosa identifichi un prezioso contributo alla società, ci troveremmo fatalmente in disaccordo. Viviamo in società pluraliste; le persone hanno concezioni diverse sugli scopi e sui fini sociali, e quindi su ciò che conta quale contributo al bene comune o sociale.

E così, si è tentati di impiegare un meccanismo apparentemente neutrale per decidere la questione di ciò che conta quale contributo prezioso per la società. Penso che l’attrattiva o la lusinga più profonda dei mercati, anche al di là della promessa di offrire prosperità e abbondanza, stia nel fatto di offrirci, di prometterci, la possibilità di risparmiare a noi stessi l’altrimenti inevitabile necessità di condurre dibattiti incerti e controversi su come valutare beni, contributi, servizi e lavoro. Penso però che dovremmo cominciare a opporre resistenza a questa tentazione. Diventando consapevoli che la promessa dei mercati è in realtà una falsa promessa, perché i mercati non sono, alla fine, un modo veramente neutrale di misurare il valore quando si tratta di decidere su questi valori.

E quindi, penso che parte di ciò che dobbiamo fare – e questo ritorna alla tua domanda su quale sia l’alternativa – è creare le condizioni perché ci venga offerto un tipo di discorso pubblico moralmente più robusto rispetto al tipo discorso che ci è stato proposto e a cui ci siamo ormai assuefatti. Un discorso che affronti direttamente e apertamente questa domanda e offra ai cittadini democratici la possibilità di valutare davvero in che cosa consista un valido contributo al bene comune e sociale. Altrimenti continueremo ad essere soggetti alla tirannia della metrica del denaro come misura del merito e del contributo dato da ciascuno alla società [Sandel ha sviluppato compiutamente questa idea nel suo libro del 2012 Quello che il denaro non può comprare. I limiti morali del mercato, 2021, Feltrinelli, n.d.T.] .

Ora, per quanto riguarda i test standardizzati, penso che anche loro abbiano finito per esercitare un’influenza perniciosa. Poiché si tende a dare per scontato – contrariamente a quanto poi emerge in pratica – che la propria pretesa di essere ammessi all’istruzione superiore e alle università d’élite competitive possa esser adeguatamente misurata solo dal punteggio conseguito svolgendo un test standardizzato.

Ma questi test sono altamente orientati ai risultati e i punteggi conseguiti nei test sono altamente correlati al reddito e la ricchezza della famiglia di appartenenza (specie se i componenti di quest’ultima hanno a loro volta frequentato l’università) del candidato che con essi si cimenta. E un altro modo in cui le metriche entrano in gioco – anche al di là dei test standardizzati, per quanto mi è dato capire in molte università europee – è il peso crescente che viene attribuito alle metriche di ricerca attraverso le quali vengono formulate le misurazioni quantitative degli indici di citazione dei professori e dei ricercatori, come un modo per classificare le università, soprattutto per finalità di sostegno pubblico.

Io penso che queste metriche, e con esse l’idea che i contributi alla conoscenza possano essere misurati quantitativamente e classificati in base a questi indici di citazioni, siano tanto discutibili quanto il fatto di credere che i punteggi dei test standardizzati siano la vera misura delle doti intellettuali e del potenziale dei giovani. E così, proprio come dobbiamo mettere in discussione la metrica del denaro, mentre il mercato del lavoro esprime il suo verdetto inappellabile su ciò che ha valore per la società, così penso che dovremmo mettere in discussione l’attuale entusiasmo per le metriche quantificabili escogitate per misurare il potenziale dei giovani che chiedono l’ammissione, oppure la qualità scientifica dei ricercatori e dei professori misurati sulla base di questi indici di citazione. Questi possono dirti qualcosa, ma quello che ci dicono è così limitato che penso sia un errore fatale far dipendere da questi dati la misura del sostegno pubblico all’istruzione superiore a favore di una o di un’altra università.

UMBERTO IZZO. Grazie, grazie ancora Michael, e mi chiedo se posso ancora farti ancora una breve domanda, che riguarda quanto accaduto qualche giorno fa all’Università di Padova. Ti ho inviato la traduzione del discorso davvero incisivo che la rappresentante degli studenti di quell’ateneo ha tenuto alla presenza della nostra ministra dell’università. E poiché quest’aula è piena di studenti e a loro sarà data voce nella tavola rotonda di chiusura della conferenza, credo sia molto interessante considerarlo. Non abbiamo tempo, ovviamente, per ascoltare il discorso qui, ma chi ha avuto la possibilità di ascoltarlo credo possa convenire che quel messaggio parli da solo nel descrivere la condizione di molti studenti universitari italiani medi: stress, tentativi di suicidio e così via. Come ti sentiresti di commentare il riferimento fatto da quella studentessa di Padova all’ideale meritocratico americano e alle conseguenze che quell’ideale determina sulla condizione umana e sulle aspettative di vita degli studenti?

MICHAEL SANDEL. Sono rimasto molto colpito e commosso leggendo la traduzione che mi hai inviato del discorso pronunciato dallo studente di Padova. Gli studenti, in particolare quelli che competono per l’ammissione alle migliori università, sono sottoposti a un’enorme pressione. Uno dei prezzi che paghiamo per il fatto di aver trasformato l’istruzione superiore in una macchina selezionatrice funzionale a una società meritocratica orientata al mercato è quello di aver trasformato la giovinezza, l’adolescenza dei nostri figli, in una stagione di ansia, disseminata di stress, in un periodo pressante di attesa, attesa di studio, di preparazione agli esami che induce tra i giovani due cose. In primo luogo, la sensazione che il loro sforzo, poiché a questi giovani chiediamo di impegnarsi duramente, deciderà il loro destino. E quindi, non c’è da stupirsi che anche chi vince l’ammissione non può fare a meno di credere di essere lì grazie al proprio fare, al proprio impegno. Ma quando i giovani finalmente emergono, arrivano feriti, in qualche modo sono dei vincitori feriti. Abbiamo parlato dell’ingiustizia che colpisce chi perde in una meritocrazia orientata al mercato. Ma anche chi vince resta colpito indelebilmente dall’intensa pressione a cui è stato sottoposto. La studentessa di Padova rifletteva su questo. L’incidenza del suicidio e dei problemi di salute mentale, dell’ansia e della depressione tra i giovani nella loro adolescenza e nei primi 20 anni è una delle grandi tragedie che dovrebbe spingerci a riconsiderare il fatto di aver trasformato l’istruzione in una macchina che produce e dissemina ansia e stress. Una delle affermazioni dello studente che mi ha colpito è stata questa: “Ricordiamoci che non è la media dei nostri voti a definire chi siamo”. Questo mi ricorda un aneddoto personale che risale ai miei tempi di scuola.

È una storia che racconto in The Tyranny of Merit, quando avevo, non so, 13 o 14 anni in una classe di matematica; era una scuola pubblica ma molto, molto competitiva, e dopo ogni test e ogni quiz, l’insegnante in classe riassegnava i posti dove ci saremmo seduti in classe, perché le prime tre file di posti erano designate come le cosiddette “file d’onore”, dove gli studenti erano seduti nell’ordine corrispondente alla media dei voti ottenuti in quel dato momento. Quindi, ogni volta che facevamo un quiz, ogni settimana, credo, la tabella dei posti a sedere veniva riorganizzata a seconda di come era variata la media dei voti degli studenti, anche di un decimo di punto percentuale in base ai risultati di ogni quiz. Beh, inutile dirlo, il risultato è stato che noi tutti eravamo molto preoccupati per la nostra media dei voti in quella classe. La media dei voti arrivava, come diceva lo studente padovano, a definire chi eravamo. Eravamo anche molto interessati alla media dei voti dei nostri compagni di classe perché anche quello avrebbe deciso in quale sedia prendere posto nella classe di matematica. Ciò non ha creato un’atmosfera favorevole all’apprendimento fine a sè stesso, come puoi immaginare.

Un paio d’anni dopo, al mio primo anno di liceo, frequentavo un corso di biologia. Era un’aula meravigliosa. La stanza era piena, l’insegnante aveva riempito l’aula con ogni sorta di affascinante esemplare di fauna selvatica: serpenti, roditori, salamandre, lucertole e pesci tropicali di ogni tipo. Eppure, tutti erano preoccupati per la loro media dei voti. Ma il professore di biologia non era affatto convinto che questa condizione creasse un clima favorevole per l’apprendimento. Così un giorno, il professore, l’insegnante di biologia, disse a tutti di prendere un pezzo di carta e di numerarlo da uno a quindici. Ci sarebbe stato un quiz, un quiz a sorpresa, e ciascuno di noi avrebbe dovuto rispondere vero o falso per ognuna delle affermazioni numerate fino a quindici. Gli studenti si lamentarono. Dissero al professore: “ma come? non ci ha dato, non ci ha indicato le affermazioni che dovremmo valutare come vere o false. Dove sono le domande?’ E l’insegnante rispose: “beh, pensate a un’affermazione per ciascun numero e poi scrivete se è vera o falsa”. E gli studenti chiesero, mostrando un’ansia crescente, “va bene prof., questo sarà valutato e conterà?”. E lui rispose, “certo, naturalmente”.

Io all’epoca pensai che si trattasse di uno scherzo di classe divertente, anche se eccentrico, che questo simpatico professore aveva voluto escogitare. Ma ripensandoci, mi rendo conto che il mio professore di biologia, a suo modo, stava respingendo la tirannia del merito, cercando di farci fare un passo indietro, per rifiutare l’idea di ridurre la nostra considerazione individuale, come diceva lo studente di Padova, a quella espressa dalla media dei nostri voti. Stava cercando di farci fare un passo indietro da quelle pressioni e quelle metriche, un passo abbastanza lungo da permetterci di esprimere meraviglia per quelle salamandre.