Essere contro il merito significa essere contro l'inasprimento delle diseguaglianze

Virginia Magnaghi (Scuola Normale Superiore di Pisa): «Essere contro il merito significa essere contro l’inasprimento delle disuguaglianze»
Quarto Convegno Roars, Trento 24-24 febbraio 2023
Tavola rotonda: COSA «MERITANO» LA SCUOLA E L’UNIVERSITÀ ITALIANA


Buongiorno a tutte e a tutti. Vi ringrazio per questa occasione, per questo invito, per questo spazio. Vi ringrazio soprattutto per quello che avete fatto in questi dieci anni, per il tempo che avete dedicato a Roars e l’impegno che ci avete messo. Chi, come me, ha conosciuto l’università negli ultimi 10 anni, su di voi si è appoggiato e ha trovato un bacino di pensiero critico e di dati fondamentale. Probabilmente la ragione per cui oggi sono qui con voi è un discorso pisano di un anno e mezzo fa che ha avuto una certa eco-mediatica; ecco quel discorso poggiava molto sul lavoro che voi avete fatto, e per questo vi ringrazio.

Quindi, forse, una prima risposta alla domanda al centro di questa tavola rotonda – che cosa meritano l’università e la scuola oggi? – è che si meritano più Roars: nella misura in cui si meritano più impegno, si meritano più volontà di guardarsi, di studiarsi, di analizzarsi criticamente, di impegnarsi civilmente, senza accettare il sistema in cui siamo ma provando a rinegoziarlo; senza accettare il ricatto della produttività, senza accettare di rifugiarsi nella disciplina, ma decidendo di dedicare parte del proprio tempo al mettersi in discussione. Abbiamo bisogno, per esempio, di più personale stabilizzato che provi a interrogarsi sulla precarietà: non possiamo lasciare che della precarietà si occupino i precari.

Quel discorso pisano era un discorso che veniva da un’oasi di eccellenza. A me preme sottolineare che non era un discorso, per usare due parole che sono state usate ieri, di “wounded winners” (di vincitori feriti). Chiaramente, questa è un’espressione che può nascere in un sistema come quello statunitense. A noi interessava interrogarci sulle contraddizioni che avvertivamo. La prospettiva era che la meritocrazia è una trappola: certo non per i wounded winners, ma per i supposti losers o, soprattutto, per quelli che neanche possono permettersi di competere, di entrare in questa competizione. Un’analisi della meritocrazia non può esistere senza una più generale contestualizzazione delle politiche universitarie, come abbiamo detto in questo paio di giorni: se si vuole discutere in maniera franca la meritocrazia, allora i due aspetti non si possono scindere.

Probabilmente, però, quel discorso fece anche rumore perché veniva “da dentro”: l’eccellenza la criticava dall’interno. Da allora, le voci degli studenti – come è chiaro anche da chi oggi ha parlato prima di me – si stanno molto interrogando su questo tema, intercettando anche delle esigenze che non riguardano solo l’università, ma che guardano oltre le aule: lo dimostra anche l’ultimo discorso di Emma Ruzzon a Padova (e tutto questo succede anche in altri atenei). Ci si interroga, cioè, su che cosa sia l’eccellenza nel contesto di un drastico taglio dei finanziamenti e di un uso discutibile dei finanziamenti che ci sono – come abbiamo detto stamattina.

Io credo che allora un’altra cosa che ci meritiamo e che si meritano l’università e la scuola sia una discussione più franca sulle condizioni oggettive. Come ha mostrato anche chi ha parlato prima di me, è oggi sempre più difficile garantire le basi del diritto allo studio. Studenti che avrebbero diritto a una borsa non ce l’hanno o la vedono arrivare con enormi ritardi; non ci sono i posti alloggio sufficienti; la dispersione scolastica è altissima e il numero di laureati è basso. Cioè, sempre per parlare di numeri che sono stati citati ieri, il problema, chiaramente, non è che ci sono 900 studenti al corso di economia, ma che ci sono tre docenti: il numero, il rapporto tra docenti e studenti, non funziona. E soprattutto non funziona in questo contesto. Non si può parlare di meritocrazia dimenticando questi dati di partenza.

Io credo che una discussione più franca sul merito debba partire da una considerazione molto semplice: essere contro il merito oggi significa, semplicemente, essere contro l’inasprimento delle disuguaglianze. Il sistema di oggi sembra dirci che l’eccellenza, la meritocrazia, siano gli unici parametri a far funzionare e prosperare la società: e questo non perché il “sistema dell’eccellenza” sia l’unico che funziona davvero di per sé, ma perché è l’unico a essere finanziato. A questo proposito, vorrei condividere una serie di dati da cui partire, e che riguardano forse l’incarnazione dell’eccellenza nel sistema universitario di oggi – cioè il sistema delle scuole di eccellenza, il sistema delle scuole di merito.

Il primo dato evidente è la proliferazione di queste scuole in Italia: oggi ce ne sono 53, il che significa che ci sono 53 residenze che in qualche misura garantiscono alloggio e, in diversa misura, tasse universitarie e vitto per 4.000 studenti meritevoli. Stiamo parlando di 4000 studenti all’anno a partire dal 2012, anno in cui il primo decreto legislativo è intervenuto sulla normativa di principi in materia di diritto allo studio normando l’esistenza delle scuole di merito. Da allora, sono state accreditate tutte queste strutture e ogni università ha mirato a crearsi il proprio polo meritevole, il proprio polo “per pochi”.

I dati, che peraltro sono presentati dalla Conferenza dei Collegi di Merito (quindi dall’interno: non sono dati di una società esterna) confermano in realtà che l’eccellenza non fa che acuire le disuguaglianze. Ve ne dico qualcuno: due terzi dei collegi sono al Nord, un terzo tra Centro e Sud. All’interno di queste scuole, quindi tra questi 4000 studenti, il 57,5% sono maschi, quando nel contesto universitario italiano sappiamo bene che sono molte di più le donne (i maschi sono solo il 40% di tutti gli studenti universitari).

Il dato che a me colpisce di più, che trovo più interessante, è che cumulativamente, nel decennio tra il 2009 e il 2019 – questi sono dati pubblici si trovano online, sono stati studiati da questa società di consulenza che si chiama “The European House” – i collegi di merito hanno investito per interventi strutturali, tecnologie, residenze e alloggi 43 milioni di euro. Nello stesso decennio, 43 milioni di euro sono il 60% di quanto il Ministero ha investito su infrastrutture e tecnologie per tutto il sistema. Quando parliamo di scuole di merito, stiamo parlando di 4000 studenti di fronte a un sistema da un milione e 800 mila iscritti. Quindi, un sistema che si occupa dello 0,22% di tutti gli studenti italiani ha finanziato le strutture di questi studenti con una cifra pari al 60% di quanto è stato speso per tutti. Nel contesto da cui siamo partiti, dunque nel contesto di quelle condizioni oggettive di cui dicevamo, puntare sull’eccellenza significa far prosperare un modello di questo genere. E far prosperare questo modello vuol dire, inevitabilmente, volere che le disuguaglianze si inaspriscano.

Davanti a questi numeri, l’eccellenza si palesa come strumento regressivo e come strumento conservatore che, al contempo, è prodotto e giustificazione della drastica riduzione dei finanziamenti da un lato e dell’accentramento dei finanziamenti dall’altro. È chiaro, allora, che non ci si deve stupire se sei giorni fa «Repubblica» raccontava che l’Università del Sud entro il 2040 potrebbe chiudere, minacciata dal calo demografico e dall’emigrazione interna; al tempo stesso, non dovrebbe stupire che quello stesso articolo, come soluzione al problema, prospettasse l’apertura di poli di eccellenza al sud.

Vorrei concludere semplicemente cercando di dire che, secondo me, ragionare sull’eccellenza porta a guardare in due direzioni. Da un lato porta a guardare fuori: non bisogna guardare alla retorica dell’eccellenza solo fermandosi alle scuole di eccellenza e nemmeno fermandosi sulle soglie dell’università tutta; bisogna invece uscire dall’università. Le dinamiche di standardizzazione e razionalizzazione tramite mercato delle persone non investono solamente l’università: investono la scuola, come abbiamo visto ieri, ma per esempio anche la sanità. Da un lato, dunque, una riflessione sull’eccellenza spinge a interrogarsi sull’eccellenza come dinamica trasversale. Dall’altro, forse, spinge anche a riguardarsi dentro con uno sguardo diverso. Per esempio, spinge a intercettare il fatto che, alla luce della stessa standardizzazione e alla luce della stessa razionalizzazione, ci sono altre dinamiche su cui l’università poggia e che tende a nascondere; per esempio, si costruisce sulla precarietà delle persone e sulla flessibilità del lavoro.

Queste dinamiche, sempre più radicate, sono inserite in un sistema in cui, fondamentalmente, tutto è un servizio, e in cui l’insegnamento è solo il primo di una ben più lunga serie di servizi. Forse, è il servizio più “alto”, perché è il servizio erogato dai professori e dai docenti, ed è quello culturalmente elevato; in gioco, però, ci sono tanti altri servizi, che inevitabilmente finiscono per diventare di serie b, e che sono servizi nel tempo resi sempre più precari, flessibili, “razionali” e addirittura invisibili. E sono servizi, questi ultimi, che avvengono nelle aule delle nostre università, le stesse in cui assistiamo ai corsi: sono i servizi di pulizia, di portierato, di facchinaggio, di mensa. Quando parliamo di diritto allo studio – quando parliamo di mensa, residenze, aule pulite –  bisogna che parliamo anche di questi servizi, che finiscono per essere i servizi di serie b, altrettanto anzi più precarizzati, in un’università in cui l’insegnamento è ormai diventato solo un altro servizio, per ora ancora di serie a.

Queste dinamiche di cui parliamo sono trasversali: le retoriche dell’eccellenza e del merito agiscono anche qui su più livelli, e forse la sfida politica si gioca sul tenere o provare in qualche modo a tenerli tutti insieme, senza parlare solamente di insegnamento, solamente di università.

Vi ringrazio ancora per questo incontro.